Nell’ultimo decennio, la ricerca di mondi abitabili si è trasformata da un sogno fantascientifico a una disciplina rigorosa dell’astronomia. A lungo, il focus è stato sulla cosiddetta “zona abitabile” — la fascia magica attorno a una stella dove l’acqua, fonte di vita come la conosciamo, può restare liquida. Ma la realtà dell’abitabilità è un mosaico molto più complesso, dove la giusta temperatura è solo una tessera.
Un pianeta ospitale deve avere un campo magnetico capace di proteggere la vita dalle radiazioni cosmiche, un’atmosfera stabile e non troppo densa da schiacciare ogni forma di vita, e un cocktail chimico ricco di quegli elementi forgiati nel cuore delle stelle. In altre parole: serve un ecosistema planetario perfettamente orchestrato.
Eppure, c’è chi ha deciso di spingersi oltre. McCullen Sandora, ricercatore del Blue Marble Space Institute of Science di Seattle, ha proposto un approccio radicalmente innovativo: osservare la nostra stessa posizione nel cosmo come un campione statistico. La sua idea è tanto elegante quanto spiazzante: se la nostra esistenza attorno a una stella come il Sole non è un’eccezione miracolosa, allora la frequenza delle stelle simili al Sole rispetto alle altre ci dice qualcosa sulla probabilità di trovare vita altrove. Questo metodo, recentemente pubblicato su arXiv, potrebbe ribaltare le nostre prospettive sulla vita nell’universo.
Prendiamo ad esempio le stelle nane rosse. Nella nostra galassia, superano le stelle gialle come il Sole con un rapporto di 7 a 3. Se le nane rosse fossero molto più favorevoli alla vita — diciamo, più di otto volte più abitabili rispetto alle stelle come il Sole — allora la nostra esistenza in orbita a una stella gialla sarebbe, statisticamente parlando, un colpo di fortuna raro. Eppure, eccoci qui, attorno a una stella gialla, suggerendo che le nane rosse non hanno un vantaggio così schiacciante.
Ma qui la storia si fa ancora più intrigante: Sandora porta il ragionamento a un livello cosmico, inserendo il multiverso nella formula. Immaginiamo un numero infinito di universi, ciascuno con la sua personale “ricetta cosmica” di stelle, pianeti e leggi fisiche. Alcuni potrebbero pullulare di pianeti vaganti alla deriva nel buio, altri di mondi acquatici o di corpi celesti intrappolati in danze mareali con stelle binarie. In questo scenario, la varietà degli ambienti planetari diventa un gigantesco laboratorio naturale per testare le ipotesi sull’abitabilità.
Sandora ha applicato questa logica multiversale a tutto: dalle lune ghiacciate ai mondi oceanici, fino ai pianeti erranti persi nello spazio interstellare. I risultati sono affascinanti: le restrizioni statistiche sulla probabilità di vita in questi mondi esotici diventano fino a dieci volte più severe quando consideriamo un multiverso piuttosto che un solo universo.
E non finisce qui. Se davvero la vita tende a riprodursi in ambienti dominati dall’acqua — come la Terra — anche attraverso infiniti universi, allora forse l’acqua non è così insostituibile come crediamo. Da sempre diamo per scontato che l’acqua, con le sue strane proprietà (il ghiaccio che galleggia, la capacità di sciogliere molte sostanze), sia il solvente universale per la vita. Ma se il multiverso conferma che la vita si sviluppa in ambienti liquidi anche con solventi diversi, allora dovremo ripensare la nostra chimica della vita.
Forse, un giorno, scopriremo mondi erranti popolati di organismi inimmaginabili o pianeti acquatici dove la vita fiorisce in modi che oggi ci sfuggono. Forse, un biochimico alieno potrebbe guardare alla nostra acqua con lo stesso sospetto con cui noi guardiamo un oceano di ammoniaca.
Questa ricerca non è solo un esercizio teorico. È la chiave per rispondere alla domanda più antica di tutte: siamo soli? Viviamo in un universo unico, irripetibile, oppure siamo soltanto un dato tra infiniti universi pieni di vita? L’approccio di Sandora, all’incrocio tra astrofisica, statistica e filosofia, potrebbe essere la stella polare che ci guida a scoprire la verità.