La nave stellare Avalon viaggia per 120 anni verso una colonia interplanetaria, con tutti i passeggeri in ibernazione fino all’arrivo: è l’incipit del film Passengers (2016), solo uno dei tanti racconti in cui appare la tecnica dell’ibernazione. Dalle capsule del sonno criogenico in 2001: Odissea nello Spazio e Alien, fino ai romanzi di fantascienza distopica, il “sonno glaciale” è un tòpos narrativo che permette ai personaggi di sopravvivere a viaggi secolari o saltare avanti nel tempo. Ma quanto c’è di reale dietro queste fantasie? Pochi sanno che la scienza sta esplorando davvero queste possibilità: in laboratori di tutto il mondo si studiano modi per sospendere o rallentare drasticamente i processi vitali, ispirandosi alla natura e spingendo al limite la tecnologia, nel tentativo di ritardare la morte o superare i limiti biologici imposti dal tempo e dallo spazio.
La linea di confine tra scienza e fantascienza si fa sottile. “La fantascienza – spiega Matteo Cerri, fisiologo dell’Università di Bologna – guida e ispira chi si occupa di ibernazione dal punto di vista scientifico. Ci ispiriamo agli animali che hanno questa straordinaria capacità, per trovare applicazioni future dall’esplorazione spaziale alla medicina”. In altre parole, ibernazione sintetica e animazione sospesa non sono più soltanto immaginazione: sono oggetto di ricerca concreta, passo dopo passo, in progetti che mirano a copiare il letargo naturale e applicarlo a scopi pratici. Dalle aziende che propongono di crioconservare i corpi subito dopo la morte sperando in future resurrezioni, fino ai medici che sperimentano ipotermia terapeutica per salvare vite in emergenza, l’idea di “congelare la vita” sta passando dal cinema ai laboratori. In questo articolo esploreremo le tecnologie disponibili e in fase di sviluppo che si avvicinano a questo obiettivo ambizioso: la crioconservazione di corpi interi e cervelli (la cosiddetta crionica), la conservazione prolungata di organi per trapianto, l’ibernazione indotta negli animali e i tentativi di applicarla all’uomo, la sospensione metabolica tramite sostanze innovative come l’idrogeno solforato, fino alle speculazioni futuristiche su come arrestare e riavviare il metabolismo a piacimento. Esamineremo anche i duri ostacoli biologici che la natura ci impone, nonché i dilemmi etici e legali di queste tecnologie estreme. Infine, con uno spirito più filosofico e poetico, rifletteremo sul perché l’umanità coltivi da sempre il sogno di fermare la morte e dominare il tempo.
Crioconservazione post-mortem: la crionica dal corpo al cervello
L’idea di ibernare un essere umano dopo la morte nasce negli anni ’60 ed è oggi nota come crionica. Consiste nel conservare un corpo umano a bassissime temperature subito dopo il decesso, nella speranza di poterlo un giorno riportare in vita e curare la causa della sua morte. A differenza di un congelamento “semplice” da freezer (che causerebbe la formazione di cristalli di ghiaccio affilati e la distruzione dei tessuti), la crionica adotta la tecnica della criopreservazione per vetrificazione: il sangue del defunto viene sostituito con un crioprotettore speciale, una sorta di “antigelo” ad alta osmolarità che rimuove l’acqua dalle cellule e impedisce la formazione di ghiaccio al raffreddamento. Il corpo viene poi gradualmente portato a temperature criogeniche immergendolo in azoto liquido fino a circa –196 ° C. In queste condizioni i tessuti entrano in uno stato vetroso amorfo, ultra-raffreddato ma non congelato in senso stretto, in cui non avvengono processi metabolici né i normali processi di degradazione cellulare della morte. In pratica, il decadimento biologico viene messo in pausa: la vita è sospesa in uno stato di animazione sospesa potenzialmente indefinito, mantenendo intatti organi e cellule nell’attesa di una futura rianimazione.
La procedura crionica è complessa e deve essere avviata immediatamente dopo la morte legale. Idealmente entro pochi minuti – comunque entro un’ora – dal decesso, il corpo viene raffreddato esternamente con ghiaccio e collegato a un dispositivo cuore-polmone portatile che circola un fluido freddo attraverso il sistema sanguigno. Questo primo raffreddamento rallenta la decomposizione e ossigena meccanicamente il cervello per prevenire danni ischemici durante il trasporto. Segue la fase cruciale della perfusione crioprotettiva: attraverso l’arcata aortica e le grandi vene (per un corpo intero) o attraverso le carotidi (nel caso in cui si preservi solo la testa), si immette nei vasi un liquido antigelo altamente concentrato. Il crioprotettore estrae acqua dalle cellule e abbassa il punto di congelamento, vetrificando gradualmente i tessuti – in pratica, i fluidi corporei diventano un vetro biologico. Bisogna agire rapidamente, perché man mano che il liquido circola e il corpo si raffredda, aumenta il rischio di formazione di cristalli se qualche area non riceve abbastanza antigelo. Infine, il corpo viene sistemato in un dewar (un grande termos criogenico) riempito di azoto liquido, inizialmente raffreddato a circa –125 °C e poi ulteriormente abbassato fino a –196 °C. A questa temperatura ultrabassa cessano tutte le reazioni chimiche misurabili: il metabolismo è pari a zero, i neuroni sono inerti, i batteri decompositori inattivi. Il tempo biologico è fermo.
Quali realtà offrono oggi questo servizio che pare uscito dalla fantascienza? I pionieri della crionica furono americani: il primo uomo ibernato fu James Bedford nel 1967, e da allora alcune centinaia di persone hanno scelto questa strada. I principali centri sono negli Stati Uniti, come l’Alcor Life Extension Foundation in Arizona (fondata nel 1972) e il Cryonics Institute in Michigan. Negli ultimi decenni sono nati gruppi anche in Russia (KrioRus) e Cina, e di recente in Europa: nel 2019 un medico tedesco ha fondato una compagnia a Berlino con laboratorio in Svizzera, avviando il primo progetto europeo di ibernazione umana. Complessivamente, dal 1967 a oggi, si stima che circa 500 persone siano state crio-congelate nel mondo – un numero esiguo ma in crescita. In Italia la crionica non è praticata (i corpi vengono inviati all’estero), mentre ad esempio la Francia la proibisce esplicitamente: la legge francese impone che dopo la morte il corpo sia sepolto, cremato o donato alla scienza, e non conservato a lungo termine. Celebre è il caso dei coniugi Martinot, che negli anni ’80 avevano ibernato privatamente i propri corpi in una cantina in Loira; dopo anni di battaglie legali il loro freezer si guastò e le autorità imposero la cremazione, ribadendo l’illegalità di tale pratica in Francia. Molti europei interessati alla crionica dunque firmano contratti con aziende USA, prevedendo che alla morte il loro corpo venga spedito oltreoceano per essere immerso nel freddo eterno.
Va sottolineato che la crionica si applica solo a persone dichiarate clinicamente morte – di fatto è una forma di “trattamento post-mortem”. Non è possibile oggi congelare legalmente un vivo (sarebbe omicidio), né tantomeno rianimare un morto. Nessuna persona ibernata è mai stata riportata indietro finora. Ogni tanto i media annunciano casi sensazionalistici – come quello di una ragazza di 14 anni, malata terminale di cancro, che nel 2016 ottenne da un giudice britannico il diritto di farsi criogenizzare sperando di “essere risvegliata quando avrò 80 anni, in un futuro in cui mi cureranno”. Ma ad oggi, ammesso che i corpi criopreservati possano mantenersi indefinitamente senza degradarsi (cosa verosimile finché restano a −196 °C), la rianimazione resta un’ipotesi completamente teorica. Gli esperti stimano che serviranno decenni o secoli prima che sia anche solo concepibile tentare di riportare in vita un corpo umano crio-conservato. Le attuali conoscenze mediche rendono impossibile rianimare un paziente congelato – in altre parole, chi viene ibernato oggi non può essere risvegliato con successo, con una probabilità del 100% di fallimento. I crionicisti però ribattono che il loro scopo è “comprare tempo”: meglio essere mantenuti in sospensione nel gelo che decomporsi sottoterra, dando alla scienza futura la possibilità – per quanto remota – di tentare una resurrezione. Si parla di impiegare in futuro nanotecnologie avanzatissime, magari nanorobot capaci di riparare i tessuti cellula per cellula, rigenerare organi danneggiati e curare le malattie che causarono la morte. Se e quando ciò accadrà, i pazienti crionici dovrebbero essere riportati gradualmente alla temperatura ambiente, rianimati e guariti. È uno scenario al limite della speculazione, che molti scienziati guardano con scetticismo (il giudice inglese nel caso della 14enne definì la teoria scientifica alla base della crionica “speculativa e controversa”). Eppure, l’umanità ha osato concepire progetti anche più arditi in passato, alcuni dei quali si sono avverati. Nel frattempo, il viaggio nel tempo dei crionauti è a senso unico verso il futuro: come scrisse uno di loro, “so cosa accade se scelgo la cremazione o la sepoltura, ma non voglio rinunciare all’unica chance, per piccola che sia, di una seconda vita”.
Crionica “neuro” – solo il cervello. Una variante interessante della crioconservazione umana è la neuropreservazione, ovvero la conservazione del solo cervello (talvolta dell’intera testa) invece del corpo intero. Questa opzione nasce da una domanda: è davvero necessario preservare tutto il corpo? Dal momento che ciò che definiamo “persona” – i ricordi, la personalità, la coscienza – risiede nel cervello, alcuni preferiscono ibernare solo la testa, confidando che in futuro sia possibile clonare o costruire un nuovo corpo, o forse “scaricare” la mente in un supporto nuovo. I vantaggi pratici non sono trascurabili: la procedura sul capo è meno invasiva (non richiede aprire il torace per cannulare il cuore) e soprattutto costa molto meno. Mantenere un corpo intero in azoto liquido per anni implica spese ingenti di azoto e spazio; invece una testa occupa poco volume – come dice scherzosamente uno degli operatori, “un neuropaziente richiede un decimo dell’azoto liquido e un decimo dello spazio di un paziente a corpo intero”. Alcor, ad esempio, richiede un contributo minimo di 200.000 dollari per un corpo intero, mentre per la sola neuro-preservazione bastano 80.000 dollari (altre società offrono prezzi analoghi, ~60 mila euro). Non stupisce quindi che diversi clienti scelgano questa strada. Presso Alcor, all’interno di ogni dewar possono essere alloggiate apposite sospensioni cilindriche che contengono fino a 10 teste ciascuna – sembrano uscite da un racconto di fantascienza macabra, e in effetti la visione di questi “portateste” rende tangibile l’aspetto inquietante e tabù della crionica. I sostenitori però ribattono che non c’è niente di macabro: sia un corpo intero sia una testa recisa sono persone morte conservate in attesa di tecnologie miracolose, e tanto vale concentrare gli sforzi sul substrato neuronale. Altri crionicisti, viceversa, preferiscono tenere il corpo: c’è chi fa notare che alcune informazioni personali – tracce di memoria immunitaria, magari una mappa muscolare di abilità motorie, o persino marcatori epigenetici che influenzano il comportamento – risiedono al di fuori del cervello. Preservare solo la testa significa rischiare di perdere eventuali “dettagli” dell’identità che fossero codificati nel resto del corpo. Per sicurezza, dicono costoro, meglio salvare tutto. È un dibattito surreale ma affascinante, che illustra come la crionica costringa a ridefinire concetti di identità personale e integrità corporea. Di fatto, già oggi molte aziende offrono entrambe le opzioni, “Whole Body” o “Neuro”. La scelta dipende dalle preferenze (e dalle finanze) dell’individuo e dei suoi familiari.
Sicurezza e durata. Una volta stabilizzati a −196 °C, i pazienti crionici dovrebbero poter essere conservati per secoli – ma richiedono comunque monitoraggio costante. I grandi contenitori coibentati devono essere periodicamente rabboccati di azoto liquido, che inevitabilmente evapora col tempo. In caso di incidenti – terremoti, guerre, black-out prolungati – la stabilità delle strutture è a rischio. Organizzazioni come Alcor hanno piani di emergenza, generatori di riserva, procedure di trasferimento; scelgono luoghi geologicamente sicuri (ad esempio la European Biostasis Foundation ha situato il deposito europeo in Svizzera, zona poco sismica). Ciononostante, incidenti sono già accaduti: nel caso Martinot in Francia il guasto elettrico portò i corpi a scongelarsi fino a –20 °C, distruggendo le cellule. Anche negli USA, nei primi anni ’70, alcuni pazienti furono persi per negligenze finanziarie e tecniche, come raccontano tristemente le “storie dell’orrore” della crionica. La fiducia che parenti e amici devono riporre in queste istituzioni per secoli non è poca cosa – tanto che i contratti crionici spesso prevedono fondi fiduciari dedicati alla manutenzione postuma del paziente.
Approcci di crioconservazione umana e di organi: La tabella seguente confronta le principali tecniche di congelamento della vita oggi esplorate, dalla crionica di interi individui alle applicazioni mediche su organi e tessuti.
Approccio | Principio | Stato attuale (2025) |
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Crioconservazione del corpo intero | Conservazione di un corpo umano post-mortem a temperature criogeniche (~−196 °C) in azoto liquido, dopo sostituzione del sangue con crioprotettori per evitare la formazione di ghiaccio (vetrificazione). Metabolismo completamente arrestato, tessuti in stato amorfo di “animazione sospesa”. | Oltre 500 persone criopreservate dal 1967 (soprattutto in USA, Russia, Cina). Strutture attive: Alcor (Arizona) e Cryonics Institute (Michigan) negli USA, KrioRus (Russia), Yinfeng (Cina), e dal 2019 anche progetti in Europa (Tomorrow Biostasis). Nessuna rianimazione riuscita finora; la prospettiva di risveglio è rinviata a decenni o secoli nel futuro. |
Crioconservazione del cervello (neuropreservazione) | Variante della crionica in cui si conserva solo il cervello (o l’intera testa) del defunto, supponendo che identità e memorie risiedano nel SNC. Si procede alla vetrificazione della testa con analoghi metodi criogenici, riducendo costi e complessità rispetto al corpo intero. | Opzione offerta da varie aziende (Alcor, ecc.): minori costi (es. ~60 mila € vs 200 mila € per corpo intero). I “neuropazienti” sono alloggiati in contenitori dedicati (fino a 10 teste per dewar). Nessuna rianimazione possibile con la tecnologia odierna; futuro incerto (richiederà clonazione del corpo o trasferimento della mente). |
Conservazione criogenica di organi | Criopreservazione di singoli organi (cuore, reni, fegato) per trapianto futuro. Implica vetrificare l’organo con appositi crioprotettori e poi scongelarlo senza danni. Sfida chiave: evitare cristalli di ghiaccio e fratture; riscaldare l’organo in modo rapido ed uniforme per prevenire stress termici e rotture. | In sviluppo: successi pre-clinici su tessuti e piccoli organi. Un team (Univ. Minnesota) ha conservato e poi rianimato valvole cardiache e arterie, nonché interi reni di coniglio vetrificati per 100 giorni e ripristinati con nanoriscaldamento uniforme tramite nanoparticelle di ossido di ferro in campo elettromagnetico. Dopo lo scongelamento rapido (100–200 °C/min) i tessuti non presentavano danni. Ancora nessun organo umano maggiore è stato crioconservato e trapiantato con successo, ma lo scenario di banche di organi per trapianti futuri è ritenuto sempre più plausibile. |
Organi nel gelo: conservazione prolungata per trapianti
Accanto al filone “estremo” della crionica post-mortem, esiste un campo di ricerca più immediato e pragmatico: la crioconservazione di organi e tessuti per uso medico. Qui non si tratta di sfidare la morte umana, ma di risolvere un problema molto concreto: come preservare a lungo un cuore, un fegato o un rene destinati al trapianto? Oggi, infatti, gli organi prelevati da un donatore devono essere trapiantati nel giro di poche ore: ad esempio un cuore o un polmone resiste al massimo 4–6 ore in ghiaccio prima di deteriorarsi. Più del 60% dei cuori e polmoni donati viene scartato ogni anno perché non può essere trapiantato in tempo utile. Se potessimo bancare gli organi – congelarli e conservarli giorni, settimane o mesi – potremmo salvare molte vite (basti pensare che trapiantando anche solo la metà degli organi oggi scartati, le liste d’attesa si azzererebbero in due anni).
La sfida però è enorme. Congelare un intero organo senza distruggerlo è più difficile che congelare singole cellule (come già si fa con ovuli, sperma ed embrioni da decenni). Un organo è grande e complesso, contiene molta acqua: raffreddandolo, si formano cristalli di ghiaccio che lacerano membrane e vasi. Inoltre c’è il problema opposto: anche evitando il ghiaccio mediante vetrificazione con crioprotettori (concetto analogo alla crionica), un organo solido di alcuni centimetri è difficilissimo da riscaldare in modo uniforme quando lo si scongela. Se lo si scalda lentamente, le parti esterne si espandono mentre l’interno è ancora vetroso, causando stress meccanici e formazione di cristalli (devitrificazione). Occorre quindi un riscaldamento ultrarapido e omogeneo di tutto il volume. Tradizionalmente si usava riscaldare con acqua o aria calda, ma per grossi volumi non funziona: al centro resta freddo, in superficie cuoce.
Ecco perché negli ultimi anni si sono sperimentate soluzioni innovative, ad esempio usando nanoparticelle magnetiche. Nel 2017 un team dell’Università del Minnesota ha riportato un risultato storico: ha perfuso tessuti con nanoparticelle di ossido di ferro ricoperte di silice e le ha disperse uniformemente in un organo vetrificato; applicando poi un campo elettromagnetico alternato, le nanoparticelle hanno fatto da minuscole stufe interne, riscaldando dall’interno il campione a oltre 100 °C al minuto in modo uniforme. Con questa tecnica di nanowarming sono riusciti a scongelare senza danni campioni biologici di ben 50 mL – circa 50 volte più grandi dei precedenti record, che erano sui 1–2 mL. Valvole cardiache e grossi vasi sanguigni di maiale così trattati hanno ripreso viabilità normale dopo lo scongelamento. Nessun segno di fratture né di necrosi, a differenza dei campioni di controllo scongelati lentamente (che invece risultavano devastati). In un altro esperimento, ricercatori di un’azienda californiana (21st Century Medicine) sono riusciti a vetrificare un intero cervello di coniglio mantenendo intatta la struttura sinaptica osservabile al microscopio elettronico – un traguardo premiato con il Brain Preservation Prize nel 2016. Tuttavia quel protocollo usava fissativi chimici (aldeidi) oltre ai crioprotettori, quindi preservava la struttura ma uccidendo le cellule, inadatto per trapianti (era pensato più per conservare il contenuto informativo del cervello). Per organi vitali, l’obiettivo è mantenere sia la struttura che la funzionalità viva. Alcuni passi avanti: nel 2019 scienziati hanno annunciato di aver scongelato un rene di coniglio precedentemente vitrificato e perfuso con nanoparticelle, e di averlo trapiantato con successo temporaneo nell’animale. Il rene ha ripreso a produrre urina, segno di funzione, anche se non a lungo termine. La strada verso un organo umano crioconservato e rianimato è ancora lunga: servono volumi maggiori (un fegato umano è 2–3 litri, contro i 0,5 L raggiunti in esperimenti su organi di maiale) e vanno affrontati i problemi biologici (tossicità dei crioprotettori, ischemia durante la vitrificazione, ecc.). Eppure, i risultati odierni rendono credibile che in un futuro non lontano avremo “bank di organi” per trapianti. Un paziente in attesa di trapianto potrà ricevere un organo compatibile che era stoccato in azoto liquido magari da mesi, o gli stessi chirurghi potranno prelevare un organo malato di un paziente, sistemarlo in criobanca e riconsegnarglielo dopo qualche anno, nel frattempo curandone la patologia (ad es. riparando geneticamente un fegato). Si ridurrebbe la dipendenza da donatori umani e si eliminerebbe la corsa contro il tempo tra ospedali lontani.
Va ricordato che la criobiologia medica non è fantascienza ma già realtà in molti ambiti: semi, embrioni, sperma, ovociti, singole porzioni di tessuto (come pelle, cartilagine, cornee) sono comunemente congelati e scongelati per uso clinico. La sfida è estendere questi successi a sistemi complessi e grandi, come interi organi e – perché no – interi organismi. Fin dove si potrà spingere questa frontiera? La crionica spera fino all’uomo intero; la medicina si accontenterebbe, per ora, di un rene o un cuore in più salvato dal ghiaccio.
Ibernazione indotta: rallentare la vita nei viventi
Fin qui abbiamo parlato di congelare ciò che è già morto (corpi o organi espiantati). Un’altra strada ancora più affascinante è indurre uno stato di ibernazione in un organismo vivente per rallentare drasticamente le sue funzioni vitali, senza ucciderlo, e poi riportarlo alla normalità. In natura esistono numerosi animali capaci di farlo: pensiamo agli orsi che trascorrono l’inverno in letargo, respirando lentamente e vivendo delle riserve accumulate; oppure a creature estreme come la rana delle legna (Rana sylvatica) che ogni inverno congela letteralmente nei terreni gelati del Nord America – il suo cuore si ferma, fino al 70% dell’acqua corporea diventa ghiaccio, ma grazie a speciali crioprotettori naturali (glucosio e urea prodotti in grandi quantità) i suoi tessuti non subiscono danni e in primavera la rana “resuscita” sciogliendosi. Ancora più impressionanti i microscopici tardigradi o “orsi d’acqua”, che in condizioni avverse entrano in cryptobiosi: si essiccano in uno stato di animazione sospesa (detto tun), perdendo fino al 95% dell’acqua corporea e riducendo il metabolismo allo 0.01% del normale. Così possono sopravvivere a temperature da pochi kelvin fino a oltre 100 °C, al vuoto spaziale e alle radiazioni cosmiche, restando vivi ma inerti per decenni, per poi tornare attivi appena ricevono acqua. Queste capacità evolutive indicano che sospendere la vita senza morire è possibile, a certe condizioni e per certi organismi. La domanda è: si può replicare intenzionalmente uno stato simile nell’essere umano, o almeno avvicinarcisi?
Negli ultimi anni, la ricerca sull’ibernazione indotta ha fatto passi da gigante soprattutto su modelli animali. Un risultato clamoroso è stato ottenuto in Giappone (Università di Tsukuba e RIKEN) nel 2020: scienziati guidati da Takeshi Sakurai hanno individuato nei topi una specifica popolazione di neuroni nel cervello (detti neuroni Q) che, se opportunamente attivati, spingono l’animale in uno stato di torpore molto simile al letargo vero. I topi normalmente non vanno in letargo, sono animali a sangue caldo attivi tutto l’anno; eppure, stimolando quei neuroni nell’ipotalamo, i ricercatori sono riusciti a mantenere i topi in uno stato letargico per giorni. La temperatura corporea dei roditori, che di solito è ~36 °C, si è assestata attorno a 22 °C, segno che il “termostato interno” era stato abbassato di circa 10–12 gradi. Il metabolismo è crollato: battito cardiaco, respiro e consumo di ossigeno ridotti al minimo. Sorprendentemente, il team è riuscito a indurre una condizione simile anche nei ratti, specie che non va in torpore nemmeno giornaliero: dunque questo circuito neuronale sembra esistere in tutti i roditori, e “la possibilità che anche l’uomo abbia neuroni Q capaci di indurre uno stato simile è intrigante”, commenta l’autore Tohru Takahashi. Dopo alcuni giorni, i ricercatori hanno semplicemente disattivato la stimolazione e gli animali sono tornati spontaneamente alla piena attività, senza apparenti danni o deficit. Questo esperimento apre la porta alla neuro-modulazione del letargo: in futuro, un farmaco o un impulso ottico/magnetico potrebbe attivare i “neuroni del sonno profondo” nel cervello umano e mandarci in ibernazione sicura.
Un altro approccio sperimentale, divenuto celebre già nel 2005, prevede l’uso di agenti metabolici come l’idrogeno solforato (H₂S) – proprio il gas dall’odore di uova marce. Il biochimico Mark Roth (Fred Hutchinson Cancer Research Center, Seattle) scoprì che esponendo dei topi a basse concentrazioni di H₂S nell’aria, questi cadevano rapidamente in una sorta di animazione sospesa. In pochi minuti i topolini collassavano privi di sensi, il loro metabolismo crollava del 90%, la temperatura interna scendeva di 20 °C (da ~37 a ~15 °C) e il respiro passava da 120 atti al minuto a meno di 10. Così potevano sopravvivere senza ossigeno molto più a lungo del normale. Dopo 6 ore in questo stato, rimettendo i topi in aria normale si risvegliavano senza apparenti conseguenze. Roth aveva scoperto che H₂S, legandosi ai mitocondri, induce un “falso segnale” di ipossia che spegne temporaneamente la fornace cellulare: è come girare la chiave del quadro su “off” per un po’, mantenendo però la batteria carica. L’idea di “decelerare il metabolismo a comando” in un mammifero ha fatto sensazione. Purtroppo replicare il risultato su animali più grandi si è rivelato difficile (dosi e tempi diventano critici, e l’H₂S ad alte concentrazioni è tossico). Mark Roth rimane però un pioniere della suspended animation: in un famoso TED talk definì questa ricerca “l’arte di spegnere i processi vitali e poi riaccenderli”. Studi successivi hanno confermato che H₂S protegge dalla carenza di ossigeno: ad esempio, topi esposti a H₂S sopravvivono a condizioni di ossigeno letale (5% di O₂) molto più a lungo di quelli senza H₂S. Altri composti (come alcuni solfossidi) sono in studio per effetti simili.
Parallelamente, la medicina d’urgenza ha sviluppato tecniche di ipotermia terapeutica sempre più spinte. Nei blocchi operatori si usa da decenni il raffreddamento moderato (a ~33 °C) per neuroprotezione dopo arresti cardiaci o nei neonati asfittici, riducendo il metabolismo cerebrale per limitare i danni. Ma c’è chi è andato oltre: all’Università di Pittsburgh nel 2005 alcuni ricercatori annunciarono di aver sanguinato completamente alcuni cani, rimpiazzando il sangue con una soluzione salina ghiacciata, inducendo una morte clinica di 3 ore; poi ri-riempiendo il sangue e defibrillando il cuore, riportarono in vita i cani. I media parlarono di “zombie dogs”: in realtà molti degli animali ebbero danni neurologici al risveglio, segno che la tecnica era tutt’altro che perfetta. Ma servì come prova di principio per i protocolli di Emergency Preservation and Resuscitation (EPR). Nel 2019 il chirurgo Samuel Tisherman (Univ. Maryland) ha rivelato di aver eseguito per la prima volta su un essere umano un intervento di EPR in fase sperimentale. Si trattava di un paziente giovane con ferite da arma da fuoco gravissime: arrivato in pronto soccorso in arresto cardiaco, senza attività cerebrale, quindi praticamente morto. In questi casi estremi, l’EPR è consentita eticamente. I chirurghi hanno raffreddato l’organismo a ~10 °C sostituendo tutto il sangue con una soluzione salina gelida, ottenendo una sospensione completa delle funzioni (il cervello EEG-silente, il metabolismo quasi zero). In questo stato di animazione sospesa il team ha avuto circa 2 ore di tempo per riparare le lesioni che altrimenti avrebbero ucciso il paziente. Una volta terminato, hanno reintrodotto sangue, gradualmente riscaldato il corpo e rianimato il cuore con il defibrillatore. L’esito finale di quel caso non è noto (lo studio è in corso e confidenziale), ma già poter dire di aver messo in animazione sospesa un essere umano anche solo per un’ora è un traguardo straordinario. Tisherman spiega che la chiave è raffreddare rapidamente il cervello prima che i neuroni muoiano per mancanza di ossigeno. A 10 °C, le cellule possono resistere svariate decine di minuti senza flusso sanguigno. “Più freddo vai, più a lungo il cervello tollera di non avere sangue”, osserva Tisherman. Il prezzo da pagare è che “scongelare” dev’essere fatto presto e bene, altrimenti i danni da riperfusione vanificano il vantaggio. Al momento, l’EPR è vista come ultima risorsa in casi disperati di trauma: l’FDA ne ha autorizzato una sperimentazione su una decina di pazienti moribondi. Se anche solo uno sopravvivrà grazie a questa tecnica, sarà un successo.
Le applicazioni di un’ibernazione indotta controllata vanno oltre l’emergenza medica: c’è un forte interesse anche da parte delle agenzie spaziali. NASA ed ESA stanno studiando la possibilità di mettere gli astronauti in uno stato di torpore per i viaggi verso Marte e oltre. Un report della NASA nel 2014 (progetto SpaceWorks Enterprises) ha proposto moduli abitativi con Habitat di Torpore Indotto, in cui l’equipaggio di una missione marziana possa essere sedato e raffreddato a ~32 °C, riducendo il metabolismo del 70% per gran parte del viaggio. I vantaggi sarebbero enormi: minor consumo di ossigeno e cibo, meno stress psicologico (dormirebbero invece di annoiarsi mesi nello spazio confinato), e persino una minore esposizione alle radiazioni cosmiche (il tessuto in stasi subisce meno danni). Tecniche mediche come l’ipotermia e la nutrizione parenterale esistono già, ma mantenere un essere umano in ibernazione per settimane o mesi è territorio sconosciuto. Si dovrà garantire che il soggetto non subisca atrofie muscolari e demineralizzazione ossea irreversibili (problemi già noti nei voli spaziali anche senza torpore, per assenza di gravità). Una possibilità è alternare periodi di sonno profondo a brevi risvegli fisioterapici. Matteo Cerri, che fa parte di un team dell’ESA su questi studi, chiama questa prospettiva “ibernazione sintetica”: costruire “mattone dopo mattone un sistema che permetta lunghe missioni interplanetarie”, riducendo i bisogni di cibo, il malessere psicologico e altri limiti attuali. Insomma, ibernare l’uomo per viaggiare tra le stelle non è più solo fantasia letteraria, ma un obiettivo ingegneristico per il prossimo futuro.
Tecniche di ibernazione indotta e sospensione metabolica: Nella tabella seguente vengono confrontati gli approcci principali per rallentare drasticamente le funzioni vitali di organismi viventi, dal letargo indotto in ambito medico-spaziale alle idee più futuristiche di pausa molecolare della vita.
Approccio | Principio | Stato attuale (2025) |
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Ibernazione indotta (medicina spaziale/emergenza) | Indurre uno stato di letargo con abbassamento controllato della temperatura corporea e del metabolismo in un organismo vivente. Possibile tramite ipotermia avanzata (sedazione profonda e raffreddamento graduale) o agenti chimici che “mimano” il letargo naturale (es. inalazione di H₂S a basse dosi). Scopo: guadagnare tempo biologico (ridurre consumo di O₂, rallentare emorragie, prevenire danni da microgravità e isolamento nello spazio). | Pre-clinica: Esperimenti riusciti su animali non ibernanti: topi tenuti in torpore per giorni attivando neuroni specifici (Q-neurons); ratti e maiali raffreddati con successo. H₂S ha indotto torpore reversibile di 6 ore nei topi; cani rianimati dopo 3 ore “morti” in soluzione salina ghiacciata. Clinica: Emergency Preservation and Resuscitation (EPR) in sperimentazione su pazienti traumatizzati (ipotermia profonda a 10–15 °C per ~1–2 ore). Ipotermia terapeutica moderata già usata in neurochirurgia e terapia intensiva. Spazio: NASA/ESA valutano torpore per missioni su Marte (riduzione metabolismi ~70%, cicli di ibernazione di settimane). Nessuna applicazione a lungo termine sull’uomo finora; ricerche in corso. |
Sospensione metabolica molecolare | Rallentare uniformemente i processi biochimici intracellulari, intervenendo sui catalizzatori molecolari (enzimi, complessi proteici) per mettere in pausa la cellula nel suo insieme. Ispirato alla cryptobiosi di organismi come tardigradi e rane, in cui tutti i segni vitali si arrestano quasi del tutto ma la vita persiste latente. L’idea è di ottenere una “pausa temporale” globale a livello dell’organismo, reversibile a comando. | Ricerca di base: Avviato nel 2018 il programma DARPA Biostasis (USA) per identificare molecole o terapie in grado di ridurre la velocità delle reazioni biologiche in maniera sincronizzata. Si studiano ad esempio particolari proteine di stabilizzazione cellulare (sul modello di quelle espresse dai tardigradi e dagli anfibi che resistono al congelamento). Finora risultati solo in vitro; obiettivo in 5–10 anni avere prove di concetto su linee cellulari e piccoli organismi. Speculativo: Nessuna tecnologia disponibile per organismi complessi ancora. Rimane un campo concettualmente promettente (potrebbe rivoluzionare la gestione dei traumi bellici e la conservazione di materiali biologici), ma al momento confinato nei laboratori di bioingegneria molecolare. |
Limiti biologici, dilemmi etici e aspetti legali
L’idea di congelare la vita – sia tramite crionica post-mortem sia tramite ibernazione indotta – solleva numerose questioni pratiche ed etiche. Dal lato scientifico, i limiti biologici sono imponenti. Anche ignorando i problemi tecnici (già enormi) di raffreddare, congelare e riscaldare senza danni, resta l’enigma di come riparare il vivente una volta fermato. Ad esempio, un corpo umano criopreservato resta pur sempre un cadavere finché la tecnologia non sappia riattivarlo: è ipotizzabile ripristinare organi ormai non più funzionanti? L’encefalo di un adulto contiene circa 86 miliardi di neuroni intricati in connessioni sottilissime: ammettendo che la struttura sinaptica si conservi nel congelamento (cosa non garantita se il processo è subottimale), al risveglio come riavviare l’attività elettrica in modo coordinato, senza perdere i ricordi? Un danno ischemico di pochi minuti oggi può distruggere per sempre circuiti cerebrali e personalità; figurarsi dopo decenni di stasi – se i circuiti rimangono integri, potrebbero comunque “dimenticare” come oscillare correttamente. C’è poi il danno da crioprotettori: le sostanze usate (come il glicerolo o M22, mix brevettato) sono tossiche a temperatura ambiente e lasciano residui; attualmente, rianimare un organo criopreservato comporta un lavaggio perfetto del crioprotettore e una riparazione di eventuali cellule chimicamente danneggiate – compiti al di là delle nostre capacità. Per l’ibernazione nei viventi, i limiti riguardano l’omeostasi: il corpo umano non è progettato per restare freddo a lungo. Anche se evitassimo la morte per arresto cardiaco, un periodo prolungato in ipotermia profonda può causare coaguli nel sangue, squilibri elettrolitici, infezioni (il sistema immunitario si ferma) e danni da riperfusione alla rianimazione (infiammazione massiva quando il metabolismo riparte). Gli animali ibernanti hanno evoluto protezioni ad hoc – ad esempio producono antiossidanti e modificano il metabolismo dei grassi per non soffrire il riarmo del flusso di ossigeno al risveglio; l’uomo no. Pertanto, imitare artificialmente il letargo umano richiederà probabilmente anche interventi farmacologici complessi per modulare le risposte dell’organismo (anticoagulanti per prevenire trombi, antiossidanti per lo stress da riperfusione, forse infusioni periodiche di nutrienti e fattori protettivi durante lo stasis). Il monitoraggio durante un’animazione sospesa prolungata sarà critico: servono sensori per capire se il paziente sta “suffering quietly” – un rischio subdolo, perché in torpore non potrebbe comunicarlo.
Le questioni etiche sono altrettanto profonde. La crionica, in particolare, viene vista da molti bioeticisti con sospetto: è lecito illudere i malati terminali con la speranza di una resurrezione scientifica che potrebbe non avvenire mai? Alcuni sostengono che vendere contratti costosi (parliamo di centinaia di migliaia di euro) per una tecnologia non provata rasenta la truffa. D’altro canto, i crionicisti ribattono che ognuno ha diritto di disporre del proprio corpo post mortem come crede – non c’è differenza morale tra spendere soldi in cure palliative che prolunghino la vita di qualche mese, o spenderli in un tentativo di estenderla di secoli mediante il freddo. Un dibattito simile riguarda l’uguaglianza di accesso: procedure come la crionica sono oggi appannaggio di pochi ricchi o di chi vive in paesi sviluppati. Se un giorno divenissero efficaci, potrebbero creare disparità ancora maggiori (una “immortalità per ricchi”). C’è anche il nodo dell’identità personale: ammesso che un individuo venga ibernato e poi risvegliato in un lontano futuro, sarà la stessa persona? Domande simili si pongono per l’ipotetico upload mentale (copiare la mente su un computer): qual è la continuità della coscienza? Sono temi quasi metafisici, ma che la tecnologia ci costringerà a affrontare. Dal punto di vista etico-sociale, un mondo in cui la morte può essere rimandata indefinitamente trasformerebbe i valori stessi della nostra civiltà: quali sarebbero le implicazioni sulle generazioni future, sulla natalità, sull’evoluzione della specie? Già oggi, casi particolari come la ragazza britannica di 14 anni criopreservata hanno messo in luce dilemmi familiari e legali (il padre si opponeva, la madre era favorevole, un giudice ha dovuto decidere in fretta prima che la ragazza morisse definitivamente). Cosa succede se i parenti non sono d’accordo sul farsi ibernare? È moralmente accettabile “non seppellire” un corpo secondo i riti tradizionali, ma tenerlo sospeso in un magazzino? Alcuni religiosi criticano la crionica come una hybris anti-naturale, un voler negare il ciclo della vita stabilito da Dio. Altri invece la sostengono, vedendola come un’estensione del dovere medico di salvare vite (d’altronde, anche i primi trapianti di cuore furono tacciati di giocare a fare Dio).
Infine, ci sono aspetti giuridici molto concreti ma intricati. Ad esempio: un individuo legalmente dichiarato morto, ma criopreservato, è da considerarsi definitivamente morto o no? Per la legge attuale sì (infatti il decesso legale è prerequisito per l’ibernazione, come abbiamo visto). Ma immaginiamo che fra 100 anni qualcuno venisse rianimato: che status avrebbe? La sua eredità, i suoi beni, la sua identità civile – erano stati dispersi come per ogni defunto. Bisognerebbe reinventare il concetto di morte temporanea. Già oggi, per permettere l’espatrio dei corpi ibernati, a volte si ricorre a cavilli: ad esempio, alcuni stati USA considerano la crioconservazione come una forma di “donazione del corpo alla scienza” (in effetti il contratto con Alcor prevede che il paziente ceda il proprio corpo per ricerca, soluzione che bypassa alcuni divieti legali). Altre nazioni hanno normato i tempi massimi di conservazione di un cadavere, impedendo di fatto la crionica (come visto in Francia). Se in futuro l’ibernazione umana reversibile diventasse realtà, servirebbero nuove leggi internazionali. E ci sono temi come la responsabilità medica: chi si prende carico di un paziente sospeso? Se un’azienda fallisce dopo 50 anni, di chi è la colpa se i corpi si perdono? Senza contare ipotesi ancora più fantascientifiche, tipo il clonare una persona ibernata prima di rianimarla per testare la procedura – sarebbe omicidio o accanimento? Domande che oggi paiono oziose, ma un giorno chissà.
In sintesi, la tecnologia di fermare il tempo biologico è un campo di frontiera dove le incognite scientifiche (danni cellulari, complessità del risveglio) si intrecciano con dubbi etici (identità, equità, senso della morte) e questioni legali (stato giuridico, regolamentazione). Come spesso accade, l’innovazione corre più veloce delle nostre regole e filosofie – e ci costringe ad aggiornare entrambi.
L’uomo, la morte e il sogno di dominare il tempo
In un celebre racconto di fantascienza, un uomo del XXI secolo si addormenta e si risveglia duecento anni dopo in un mondo completamente cambiato. L’idea di sconfiggere il tempo attraversa la storia umana in miti e leggende: dal sonno incantato di Biancaneve e della Bella Addormentata, custodite in una bara di cristallo in attesa del risveglio, alle antiche storie di yogi in trance o di alchimisti alla ricerca dell’elisir di lunga vita. La crionica e l’ibernazione rappresentano la versione scientifica moderna di questi miti – il nostro tentativo razionale di strappare alla natura il segreto di Euridice, di riportare Orfeo dall’Oltretomba. Esse nascono da un impulso profondamente umano: la ribellione alla morte. Di fronte all’inevitabilità del nostro finito esistere, alcuni non si rassegnano e cercano una via di fuga, per quanto sottile: congelare l’attimo in cui la vita ci sfugge, sperando di riacciuffarlo in un domani lontano.
C’è in questo sogno un che di poetico e disperato al tempo stesso. Poetico, perché immagina la vita come qualcosa che si può mettere in parentesi, sospendere come una nota musicale tenuta nel silenzio finché qualcuno non la lascia risuonare di nuovo. Il tempo diventa argilla nelle mani dell’uomo, da plasmare a piacimento: oggi mi addormento nel ghiaccio, domani mi risveglierò in un futuro che non posso nemmeno concepire. Disperato, perché nasce pur sempre dalla paura primordiale della morte – la “agonia e stupore” di fronte al nulla che segue l’ultimo battito. Chi spera nella crionica dice: “Non voglio morire, voglio avere un’altra chance”. È una scommessa contro il destino, un atto di fede nella scienza futura. Forse tra cento anni gli uomini rideranno di questi primi “ibernati”, come noi oggi sorridiamo pensando ai cercatori della pietra filosofale; oppure li considereranno pionieri coraggiosi che, congelandosi nell’attimo della morte, hanno traghettato la vita al di là del suo confine.
Nessuno può sapere se questi tentativi avranno successo. Forse il sogno di dominare il tempo biologico è destinato a rimanere un sogno, e dovremo accettare che ogni vita ha un inizio e una fine insuperabili. Ma anche in tal caso, la ricerca non sarà stata vana: lungo la strada, impariamo enormemente sulla fisiologia, sviluppiamo cure (pensiamo all’ipotermia usata per salvare neonati e feriti oggi), e soprattutto sondiamo i limiti di cosa significa essere vivi. Congelare un ricordo, fermare un cuore e poi riaccenderlo, dischiudere gli occhi dopo un sonno di anni – sono immagini potenti che ci costringono a ridefinire la vita come processo e non solo come stato. La vita è movimento, ma se riuscissimo a immobilizzarla senza spegnerla, cosa diventerebbe? Forse una forma nuova di esistenza sospesa, un intervallo aggiunto alla sinfonia dell’essere.
In conclusione, la “congelazione della vita” resta oggi al confine tra scienza avanzata e speranza visionaria. Abbiamo mosso i primi passi: un embrione che sopravvive alla vitrificazione, un topo che dorme nel freddo, un cuore che riprende a battere dopo essere stato ghiacciato. Ogni piccolo successo è una luce blu nel lungo inverno della nostra ignoranza. Riusciremo un giorno a ibernare un essere umano e farlo rinascere? Se succederà, ci troveremo di fronte a un momento storico paragonabile alla scoperta del fuoco o alla conquista della Luna – un momento in cui l’umanità avrà davvero piegato le leggi naturali, conquistando un pezzetto dell’eternità. Se non succederà, il valore di questa ricerca sarà stato comunque nell’aver spinto al massimo la nostra comprensione e nel confrontarci con i nostri limiti ultimi. Come scrisse qualcuno, “L’uomo non smette di giocare perché invecchia; invecchia perché smette di giocare”. Forse, allo stesso modo, l’uomo smetterà di morire il giorno in cui non smetterà di provarci. Nel frattempo, il sogno di dominare il tempo rimane una sfida sublime – un poema in divenire, scritto nel linguaggio del freddo e della speranza, che parla del desiderio più antico: non morire, vivere e vivere ancora.
Stefano Camilloni