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James Webb e il caso K2-18 b: quanto siamo vicini alla scoperta della vita extraterrestre?

La ricerca della vita extraterrestre si muove costantemente tra la meraviglia scientifica, l’entusiasmo popolare e un sano scetticismo. Di recente, un annuncio ha catturato l’attenzione globale: gli scienziati hanno presentato quella che definiscono la “prova più forte” finora rilevata di vita su un pianeta lontano dal nostro sistema solare.

I titoli dei giornali promettono spesso una svolta epocale, dichiarando che “non siamo più soli nell’universo”. Eppure, la comunità scientifica risponde con cautela, una prudenza che potrebbe sembrare eccessiva, ma che in realtà è una caratteristica fondamentale delle scoperte scientifiche più rivoluzionarie. Basti pensare a Newton, alla teoria della tettonica delle placche di Wegener o al cambiamento climatico causato dall’uomo: tutte queste scoperte hanno dovuto superare lunghi periodi di verifica e dibattito prima di essere accettate.

Ma perché la ricerca della vita extraterrestre sembra richiedere prove ancora più straordinarie? La risposta risiede nella complessità intrinseca del fenomeno e nell’immensa distanza che ci separa dai mondi che esploriamo.

Ricordiamo episodi recenti: presunte biosignature nell’atmosfera di Venere o enigmatiche macchie individuate da rover NASA su rocce marziane. Entrambe suscitarono grande emozione, salvo poi scontrarsi con spiegazioni più semplici e meno affascinanti. La lezione imparata è chiara: nell’astrobiologia, occorre un rigore speciale.

Prendiamo ora il caso dell’esopianeta K2-18 b. Il Telescopio Spaziale James Webb (JWST) ha recentemente rilevato nella sua atmosfera gas come metano, anidride carbonica e, soprattutto, due composti particolari: dimetilsolfuro (DMS) e dimetildisolfuro (DMDS). Sulla Terra, questi composti sono associati esclusivamente alla vita microbica. Gli scienziati hanno dichiarato con sicurezza che la probabilità che questo risultato sia casuale è di appena lo 0,6%, un dato sorprendente.

Tuttavia, nonostante questa apparente certezza, la comunità scientifica non ha proclamato la definitiva scoperta della vita aliena. Perché? Il nodo è nella distinzione tra rilevamento e attribuzione. Il JWST non “vede” direttamente queste molecole: misura invece la luce che attraversa l’atmosfera dell’esopianeta, creando modelli complessi che permettono di dedurre la presenza di determinate molecole. Sebbene sofisticata, questa tecnica è vulnerabile a errori e a interpretazioni alternative.

Proprio per questo, i ricercatori continuano a cercare ulteriori conferme, seguendo l’approccio della scienza più rigorosa. In un parallelo con il cambiamento climatico causato dall’uomo, vediamo la differenza sostanziale: in quel caso, le prove arrivavano da osservazioni dirette e verificabili, con isotopi di carbonio facilmente distinguibili che dimostravano inequivocabilmente la responsabilità dei combustibili fossili. Per la vita aliena, invece, mancano ancora osservazioni dirette, campioni in situ e soprattutto una ripetibilità delle osservazioni da molteplici strumenti.

La ricerca della vita extraterrestre non è, dunque, penalizzata da standard più severi rispetto ad altre discipline scientifiche. Al contrario, è semplicemente ostacolata dalla natura stessa della sfida: osservare qualcosa di straordinario e distante attraverso strumenti che, per quanto potenti, hanno limiti intrinseci.

Quindi, per ora, la presenza di vita su K2-18 b resta affascinante, credibile, ma non confermata. Non siamo eccessivamente prudenti: siamo semplicemente prudenti nel modo giusto. Ogni osservazione è un passo avanti verso una delle risposte più profonde che la scienza possa offrire: siamo davvero soli nell’universo?

Stefano Camilloni

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