Il cosmo ci circonda con un silenzio abbagliante. Centinaia di miliardi di stelle, forse trilioni di pianeti: sembriamo inquilini provvisori in un universo che non ci appartiene davvero. Eppure, dopo decenni di osservazioni sempre più sofisticate, l’unica biosfera che conosciamo resta la nostra. Per qualcuno è un enigma frustrante; per la scienza è un invito alla prudenza. Carl Sagan lo ripeteva con lucidità disarmante: affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Oggi, nell’era del James Webb Space Telescope e dei rover marziani di ultima generazione, quel monito è più vivo che mai. La tecnologia ci permette di individuare molecole in atmosfere a centinaia di anni-luce di distanza o di misurare tonnellate d’aria rarefatta su Marte con la sensibilità di un alito. Ma la tecnologia, da sola, non basta: servono metodo, statistica, replicazione.
Il fascino (e l’insidia) dei “segnali deboli”
Prendiamo K2-18 b, un mondo grande il doppio della Terra, avvolto da un oceano di nuvole. Il Webb ha intercettato un segnale compatibile con il dimetilsolfuro, molecola che sulla Terra è legata a fitoplancton e batteri marini. Titoli eccitati? Molti. Prova di vita? Non ancora. Il segnale vale appena 3-sigma: significa una probabilità su trecento di essere un falso allarme. In fisica delle particelle, per brindare serve 5-sigma, uno su tre milioni. La distanza fra suggestione e scoperta è tutta lì, in due sigma che sembrano dettagli ma definiscono il confine fra sogno e realtà.
Marte ci ricorda la stessa lezione. Il metano che appare e scompare nella sua tenue atmosfera è intrigante – sulla Terra l’87% viene da forme di vita – ma i diversi strumenti, da orbita e da superficie, non riescono a mettersi d’accordo su quantità, distribuzione, persino sull’esistenza stessa del picco. Finché non avremo una misura robusta e ripetibile, parleremo di chimica curiosa, non di microbi marziani.
La memoria corta delle “bufale cosmiche”
La storia dell’astronomia è punteggiata di entusiasmi smentiti. I “canali” di Lowell su Marte, i microfossili nel meteorite ALH 84001, il misterioso segnale radio “Wow!” del 1977, l’ipotesi di un light sail alieno per spiegare ’Oumuamua: episodi che mostrano quanto sia facile confondere il rumore con la notizia quando il desiderio di trovare “qualcosa là fuori” prevale sulla terapia d’urto dello scetticismo.
Eppure lo scetticismo non è un freno: è un motore. L’energia oscura, oggi colonna portante del nostro modello cosmologico, emerse quando due team indipendenti, con strumenti diversi, trovarono lo stesso risultato sull’accelerazione dell’universo. Prima diffidenza, poi controlli incrociati, infine Nobel: il metodo scientifico in alta definizione.
Tre regole per non smarrirsi
- Misurare ciò che conta – Cercare biomarcatori complessi (ossigeno più metano, o schemi molecolari difficili da produrre in laboratorio) è più persuasivo di puntare su una singola firma chimica.
- Pretendere la soglia d’oro – Il limite dei 5-sigma non è un vezzo statistico: è il muro che protegge la scienza dall’auto-illusione.
- Replicare, replicare, replicare – Non importa quanto sofisticato sia lo strumento o autorevole il gruppo: senza conferme indipendenti, un dato resta ipotesi.
Scienza, speranza e responsabilità
Credere che la vita sia un evento comune nell’universo è ragionevole: la chimica organica è ovunque, l’acqua pure, e i tempi cosmici dilatano le probabilità. Ma trasformare quella plausibilità in evidenza empirica è un percorso accidentato. Non è pignoleria: è rispetto per la posta in gioco. Trovare anche solo un batterio alieno cambierebbe la biologia, la filosofia, forse la geopolitica. Non possiamo permetterci mezze prove.
Nel frattempo, coltiviamo la curiosità senza cedere all’ansia dell’annuncio. Ogni spettro atmosferico, ogni carotaggio di suolo marziano, ogni punto silenzioso ascoltato dai radiotelescopi rafforza il modo in cui facciamo domande, migliora gli strumenti con cui cerchiamo le risposte. La pazienza è parte integrante della scoperta; l’impazienza, spesso, della smentita.
La prossima “prova” di vita aliena verrà inevitabilmente presentata con grande clamore mediatico. Quando accadrà, ricordiamo la regola: serve un segnale forte, statisticamente solido e replicato in modo indipendente. Solo allora lo scetticismo potrà cedere il passo allo stupore, lasciandoci finalmente dire – con dati alla mano – che non siamo soli.
Fino a quel momento, continuiamo a guardare il cielo con gli strumenti puntati e la mente critica: è così che si fa, da sempre, buona scienza.
Stefano Camilloni