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Il telescopio Webb e la caccia alla vita extraterrestre: tra sogni, difficoltà e il futuro della ricerca scientifica

L’eco dell’annuncio su possibili tracce di vita su K2-18b ha acceso la fantasia collettiva. Il James Webb Space Telescope (JWST), il più potente “occhio cosmico” mai costruito, ha rilevato nell’atmosfera di questo esopianeta sostanze chimiche come il DMS e il DMDS, che sulla Terra sono associate a processi biologici. È bastato questo per alimentare speranze e titoloni. Ma attenzione: gli scienziati sono chiari. Non si tratta della scoperta della vita, ma di indizi chimici che potrebbero suggerirla.

Una domanda quindi s’impone: il JWST potrà mai darci una risposta definitiva alla questione più antica di tutte – siamo soli nell’universo?

Una tappa fondamentale, non un traguardo

Quando è stato progettato, tra i quattro obiettivi principali del JWST spiccava anche lo studio dei “Sistemi Planetari e delle Origini della Vita”. Tuttavia, fin dall’inizio, gli scienziati sapevano che identificare prove certe di vita sarebbe stato estremamente difficile. Il JWST non è la meta finale, ma un passaggio cruciale tra i telescopi del passato (Hubble, Spitzer) e quelli futuri, ancora più specializzati nella caccia alle cosiddette biosignature.

Un recente studio guidato dalla celebre planetologa Sara Seager (MIT), con ricercatori da USA, UK ed Europa, ribadisce quanto sia complicato per il JWST fornire prove inequivocabili. La buona notizia? In linea teorica, il telescopio potrebbe rilevare gas associati alla vita grazie alla spettroscopia in trasmissione. La cattiva? È ancora tutto da dimostrare con certezza, e le aspettative pubbliche rischiano di non essere allineate con la realtà.

La sfida della spettroscopia in trasmissione

Studiare l’atmosfera di un esopianeta a 125 anni luce da noi, come K2-18b, è impresa titanica. E sebbene la spettroscopia in trasmissione sia una tecnica potente – perché analizza la luce di una stella mentre filtra attraverso l’atmosfera del pianeta durante il transito – rimane anche estremamente delicata.

La luce della stella può contaminare i dati, e i segnali rilevati sono deboli e complessi da interpretare. Per questo motivo, Seager e colleghi suggeriscono di abbandonare l’idea della “pallottola d’argento”: un singolo gas che, da solo, indichi la presenza di vita. Il JWST è molto più utile nel costruire un quadro complesso e dettagliato degli esopianeti, piuttosto che nel trovare un “sì o no” definitivo.

Le stelle nane M: alleate ingannevoli

Il JWST riesce a ottenere i migliori risultati studiando pianeti attorno a stelle nane M (dette anche nane rosse), molto più piccole del nostro Sole. Grazie alle loro dimensioni ridotte, i segnali dei transiti planetari sono più marcati, rendendo più accessibili le misurazioni atmosferiche.

Tuttavia, queste stelle sono tutt’altro che tranquille: presentano una forte attività magnetica, con macchie, brillamenti e altri fenomeni che “sporcano” gli spettri raccolti. Un esempio celebre? Il sistema TRAPPIST-1, dove la turbolenta nana rossa complica la lettura degli spettri. Anche K2-18b orbita attorno a una di queste stelle attive.

Capire i segnali: una vera sfida

Gli autori dello studio sottolineano quanto sia rischioso trarre conclusioni affrettate da segnali così complessi. Gli spettri atmosferici sono il risultato di processi fisici e chimici tridimensionali intricati. Ed è troppo presto per considerarli chiavi sicure per decifrare composizione, abitabilità o presenza di vita.

Per valutare se una potenziale biosignature sia credibile, servono tre condizioni fondamentali:

  1. Rilevazione: Il segnale è chiaro e ripetibile?
  2. Attribuzione: Siamo sicuri che il gas rilevato sia quello giusto?
  3. Interpretazione: Quanto sono affidabili le informazioni che deduciamo?

Nel caso del DMS (e forse del DMDS) rilevato su K2-18b, nessuno dei tre criteri viene soddisfatto pienamente. È il primo assaggio di quanto sarà difficile, con l’attuale tecnologia, proclamare di aver trovato una biosignature.

Una verità sobria, ma ricca di promesse

Nella loro conclusione, gli autori non girano intorno alla verità:
“Con il JWST, potremmo non riuscire mai a rivendicare in modo definitivo la scoperta di un gas biosignature su un esopianeta.”

Eppure, questo non è un fallimento. È il segno che stiamo muovendo i primi, fondamentali passi verso un obiettivo grandioso. Il JWST ci sta aiutando a conoscere mondi lontani come mai prima, a mappare atmosfere altrimenti invisibili e a porre basi solide per le scoperte dei prossimi decenni.

Nei prossimi anni, il JWST continuerà a essere il simbolo di una nuova era nell’esplorazione cosmica. Anche se non ci darà la prova definitiva che cerchiamo, potrebbe essere ricordato come il primo telescopio che ci ha avvicinato seriamente alla risposta alla domanda più profonda di tutte: siamo davvero soli?

Stefano Camilloni

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