Le prime due pellicole della saga di Alien – Alien (Ridley Scott, 1979) e Aliens – Scontro finale (James Cameron, 1986) – hanno affascinato il pubblico con una miscela di horror e fantascienza. Astronavi gigantesche, viaggi interstellari, creature aliene spietate e tecnologia futuristica: quanto c’è di potenzialmente realistico in tutto questo? In questo articolo divulgativo analizziamo alcuni aspetti scientifici chiave dei film, confrontando la finzione cinematografica con le conoscenze reali. Parleremo della plausibilità dei viaggi spaziali rappresentati (dalle astronavi alle modalità di ibernazione), della presenza di gravità artificiale a bordo, della biologia dell’alieno Xenomorfo (ciclo vitale, crescita, forza e sangue acido), dell’ambiente del pianeta LV-426 e delle tecnologie e armi futuristiche impiegate. Il tono è accessibile ma rigoroso, rivolto a chi ama sia la scienza che il cinema, per capire dove Alien rispecchia la realtà scientifica e dove invece se ne discosta.
Viaggi interstellari: navi spaziali, velocità e ibernazione
Nei film di Alien, l’umanità degli anni 2100 ha colonizzato lo spazio profondo. La USCSS Nostromo (in Alien) e la USS Sulaco (in Aliens) sono astronavi in grado di coprire distanze interstellari enormi in tempi relativamente brevi. Ad esempio, la Nostromo riceve un segnale di soccorso da LV-426, un piccolo satellite del sistema di Zeta II Reticuli a circa 39 anni luce dalla Terra. Coprire 39 anni luce in un arco di tempo gestibile (nell’ordine di mesi o pochi anni di viaggio) richiede necessariamente qualche forma di propulsione superluminale – ossia più veloce della luce – poiché secondo la fisica classica un viaggio a velocità sub-luce impiegherebbe decenni o secoli. I film non approfondiscono esplicitamente la tecnologia impiegata, ma materiale extra (manuali e guide ufficiali) suggerisce l’uso di un ipotetico motore a curvatura o “tachionico”. Ad esempio, è indicato che la Nostromo monta un drive a tachioni Yutani T7A capace di una velocità di crociera di 0,42 anni luce al giorno – un valore straordinario, equivalente a circa 150 volte la velocità della luce! Ciò ovviamente viola le leggi della relatività di Einstein, che vietano a qualsiasi oggetto dotato di massa di raggiungere o superare la velocità della luce nel vuoto. L’unica scappatoia teorica sarebbe deformare lo spazio-tempo attorno all’astronave, come ipotizzato dal fisico Miguel Alcubierre nel 1994 con il concetto di warp drive. In tale scenario, la nave non si muoverebbe localmente più veloce della luce, ma contrarrebbe lo spazio davanti a sé ed espanderebbe quello dietro, permettendo un movimento superluminale senza infrangere la relatività. Purtroppo, i modelli di motore a curvatura richiedono energia negativa o materia esotica in quantità immense – secondo stime recenti, servirebbe oltre dieci volte l’energia positiva contenuta nell’intero universo! In altre parole, allo stato attuale delle conoscenze, un motore superluminale resta fantascienza pura. I viaggi interstellari realistici dovrebbero accontentarsi di velocità prossime a quella della luce (con tempi di volo di anni o decenni e relativi effetti di dilatazione temporale) o soluzioni come “generational ships” dove più generazioni vivono e muoiono durante il tragitto. Alien bypassa elegantemente il problema introducendo un’espediente tecnologico fittizio e concentrandosi su altri aspetti della trama.
Un elemento chiave reso in Alien e Aliens con notevole coerenza è l’uso dell’ibernazione (o ipersonno) per i viaggi di lunga durata. In Alien, l’equipaggio della Nostromo viene mostrato all’inizio mentre esce da capsule di ipersonno, e in Aliens Ellen Ripley si risveglia dopo 57 anni in stasi (a causa di eventi intercorsi alla fine del primo film). Questo escamotage narrativo riflette una problematica reale: anche ammesso di poter viaggiare a frazioni significative della velocità della luce, i viaggi verso altre stelle durerebbero anni, periodo durante il quale gli astronauti consumerebbero risorse e invecchierebbero. Addormentare l’equipaggio in uno stato di animazione sospesa è dunque una soluzione fantascientifica per affrontare i viaggi lunghissimi. Quanto è plausibile? Ad oggi, non esiste una tecnica per “mettere in letargo” un essere umano e poi rianimarlo senza danni, ma la scienza sta facendo passi interessanti in questa direzione. Gli scienziati studiano gli animali che ibernano naturalmente (come alcuni roditori) per capire come ridurre il metabolismo umano in modo sicuro. Un approccio concreto è il torpore indotto: invece di congelare completamente una persona (criocongenesi completa, ancora irrealizzabile), si punta a abbassare la temperatura corporea di alcuni gradi e rallentare il metabolismo con farmaci, mantenendo il soggetto vivo ma in uno stato simile al coma. Una presentazione della NASA del 2014 descrive un possibile modulo di trasferimento interplanetario in cui gli astronauti sarebbero posti in torpore: servirebbe un blocco neuromuscolare (per evitare brividi e movimenti), nutrizione parenterale totale (una soluzione nutritiva con tutti i glucidi, aminoacidi, vitamine e minerali) e una riduzione della temperatura corporea di soli ~5-6 °C per ottenere un calo del metabolismo del 50-70%. Un tale stato di animazione sospesa (più corretto chiamarlo letargo indotto clinicamente) ridurrebbe fabbisogni di ossigeno e cibo e mitigerebbe i danni da inattività prolungata. Recentemente, esperimenti hanno mostrato che è persino possibile indurre uno stato simile all’ibernazione nei topi usando ultrasuoni sul loro cervello, nonostante i topi non siano animali ibernanti in natura. Questo suggerisce che anche nel cervello umano potrebbe esistere un “interruttore” latente per il torpore. Siamo ancora lontani dall’ibernazione umana prolungata, ma la comunità scientifica considera la stasi metabolica un campo di ricerca promettente per i viaggi su Marte e oltre. Dunque l’idea vista in Alien non è totalmente strampalata: il principio di base (ridurre il metabolismo per dormire mesi o anni) è esplorato attivamente, anche se restano sfide enormi nel prevenire atrofia muscolare, perdita ossea e danni a organi durante il lungo sonno. Nei film, ovviamente, la procedura di ipersonno è rappresentata in modo molto semplificato (basta entrare in una capsula e chiudere gli occhi); nella realtà sarebbe necessario un complesso sistema di supporto vitale, monitoraggio continuo e protocolli di risveglio d’emergenza.
Un dettaglio curioso è che in Aliens Ripley sopravvive 57 anni alla deriva nello spazio in ipersonno nella capsula di fuga Narcissus, il che implica che la tecnologia di supporto vitale di queste capsule è estremamente affidabile e a lunghissima durata (fornendo nutrimento e riciclo dei gas per decenni). Nella realtà, mantenere una persona in vita per decenni sarebbe uno sforzo ingegneristico incredibile. Ma data l’ambientazione futuristica del XXII secolo, possiamo sospendere l’incredulità: si presume che le capsule abbiano fonti energetiche e sistemi di sostentamento avanzatissimi (magari piccoli reattori nucleari e ottimizzazione estrema del riciclo di aria e acqua). Infine, val la pena notare come i film non menzionino mai gli effetti della relatività: a velocità relativistiche il tempo per l’equipaggio scorrerebbe più lentamente rispetto alla Terra, ma in Alien/Aliens questo aspetto è ignorato (Ripley perde 57 anni solo perché rimane alla deriva, non per dilatazione relativistica dovuta a velocità prossime a c). Ciò indica implicitamente che le navi usano davvero un qualche escamotage superluminale (come il “salto nell’iperspazio” tipico di tanta fantascienza) invece di accelerare a 0.999c con conseguenze relativistiche. In sintesi, i viaggi spaziali in Alien hanno una veste realistica – astronavi enormi, viaggi lunghi con equipaggio ibernato, procedure di risveglio – ma si basano su tecnologie speculative (propulsione più veloce della luce, ibernazione umana) che attualmente non esistono, anche se la scienza sta esplorando concetti analoghi.
Gravità artificiale a bordo delle astronavi
Un aspetto spesso trascurato nei film di fantascienza “classica” (e Alien non fa eccezione) è come gli astronauti possano tranquillamente camminare sul pavimento delle loro navi come se ci fosse gravità. Nelle scene a bordo della Nostromo o della Sulaco, vediamo i personaggi muoversi in condizioni di apparente gravità terrestre normale, non fluttuano in assenza di peso. Eppure, nessuna delle due navi mostra grandi sezioni rotanti (come la ruota di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick) né altri meccanismi evidenti per simulare l’accelerazione di gravità. Dobbiamo quindi dedurre che nell’universo di Alien l’umanità abbia inventato una qualche forma di gravità artificiale “interna” – forse generatori di campo gravitazionale installati nei ponti delle navi. Si tratta di un classico espediente fantascientifico per evitare di dover filmare gli attori in assenza di peso (cosa complicata e costosa in produzione). Ma è una tecnologia credibile dal punto di vista scientifico? Attualmente non possediamo alcun dispositivo in grado di creare un campo gravitazionale artificiale se non ricorrendo all’accelerazione stessa o alla rotazione. La gravità, per quanto ne sappiamo, non può essere schermata né generata artificialmente se non con la presenza di massa o energia in quantità astronomiche (secondo la Relatività Generale). Dunque, niente “piastrine gravitazionali” o generatori di gravità portatili nella realtà odierna. L’unico modo noto per simulare la gravità in un veicolo spaziale è usare la forza centrifuga o l’accelerazione lineare:
- Rotazione: se una nave spaziale ruota su se stessa, gli oggetti al suo interno premono verso le pareti esterne simulando l’effetto di gravità (forza centrifuga). Una stazione orbitante o sezione anulare abbastanza grande, ruotando al giusto ritmo, può fornire agli astronauti una pseudo-gravità verso l’esterno. Ad esempio, nel film Interstellar (2014) la navetta gira su se stessa per creare 1 g di gravità simulata. Anche nella realtà, negli anni ’60 NASA e altri hanno studiato moduli rotanti, e sono stati fatti esperimenti mettendo astronauti su centrifughe per periodi prolungati (sulla Terra) per vedere se il corpo si adatta. Il principio funziona, ma realizzare una sezione rotante sufficientemente ampia su un’astronave è ingegneristicamente complesso – servono strutture mobili, giunti, e c’è il problema del mal di mare da Coriolis se il raggio è troppo piccolo (la testa dell’astronauta girando si muove a velocità diversa dei piedi).
- Accelerazione continua: se una nave spaziale accelera in linea retta a 1g (circa 9,8 m/s²), all’interno gli oggetti “sentono” una forza equivalente alla gravità terrestre, nella direzione del pavimento opposto al senso di accelerazione. In teoria, un’astronave che accelerasse a 1g per metà viaggio e decelerasse a -1g per l’altra metà permetterebbe ai passeggeri di vivere normalmente con “gravità” per tutto il tragitto. Questo è un concetto spesso usato in romanzi di fantascienza hard (ad esempio The Expanse): qui però il problema è fornire tale accelerazione costantemente, il che richiede enormi quantità di energia e carburante. Nelle navi di Alien non si vede traccia di propulsione continua; anzi, durante la crociera presumibilmente viaggiano per inerzia a velocità costante nell’iperspazio.
Nel franchise di Alien, insomma, la gravità artificiale è data per scontata. Possiamo immaginare che nel 2122 (anno in cui è ambientato Alien) l’umanità abbia scoperto un modo per generare campi gravitazionali localizzati, magari manipolando forze fondamentali o usando la stessa tecnologia del motore tachionico. È una speculazione fantascientifica senza fondamento nelle nostre attuali conoscenze: al 2025, la gravità artificiale rimane un concetto teorico. Esiste interesse a svilupparla, perché l’assenza di peso prolungata provoca seri problemi di salute (perdita di massa ossea, atrofia muscolare, fluidi corporei che si redistribuiscono). Tuttavia, gli scienziati oggi si concentrano su contromisure come esercizio fisico, farmaci o habitat rotanti, più che su fantomatici “generatori di gravità”. Nei film, dunque, la raffigurazione della gravità è irrealistica ma funzionale alla narrazione. Vale la pena notare però che in alcune scene Alien mantiene coerenza con la fisica: ad esempio, quando Kane e gli altri scendono su LV-426 con il modulo e aprono il portellone, vediamo la nebbia dell’atmosfera entrare rapidamente nella stiva per la differenza di pressione – un dettaglio corretto fisicamente. Oppure si può citare il celebre slogan pubblicitario di Alien: “Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. Questo richiama una verità scientifica: nel vuoto dello spazio il suono non si propaga, poiché mancano particelle che vibrino. I film tuttavia contraddicono un po’ questo concetto quando mostrano esplosioni spaziali con rumore (ad esempio, la distruzione finale della Nostromo). Si tratta chiaramente di licenza artistica per enfatizzare la drammaticità – un peccato veniale comune a quasi tutto il cinema di fantascienza.
In sintesi, Alien e Aliens ignorano volutamente il problema della gravità artificiale (come la maggior parte dei film del loro periodo): ciò che vediamo sullo schermo – equipaggi che camminano su astronavi senza rotazione – non è supportato dalla scienza reale, ma è accettato dallo spettatore come “parte del patto fantascientifico”. Oggi serie più recenti (Interstellar, The Expanse, etc.) prestano maggiore attenzione a simulare la gravità in modo scientifico, segno di una crescente aspettativa di rigore da parte del pubblico moderno. Ma negli anni ’70-’80 questo dettaglio passava in secondo piano rispetto all’atmosfera e alla storia.
Biologia dello Xenomorfo: crescita, forza e sangue acido
Uno degli elementi più iconici (e inquietanti) di Alien è la creatura aliena, lo Xenomorfo, con il suo ciclo vitale bizzarro e le sue letali caratteristiche biologiche. Ridley Scott e gli sceneggiatori concepirono lo Xenomorfo come un organismo quasi perfetto per uccidere: dotato di forza straordinaria, crescita rapidissima, un esoscheletro corazzato e sangue al posto di sangue… letteralmente acido molecolare capace di sciogliere metalli. Quanto c’è di plausibile in una simile creatura? Sorprendentemente, molte idee alla base dello Xenomorfo prendono ispirazione da parassiti e insetti terrestri, sebbene estremizzate. L’evoluzionista Paula Cushing, ad esempio, ha notato che Alien è sostanzialmente “la biografia di un parassita” e che il film “ha preso il ciclo vitale dei parassiti terrestri e l’ha riprodotto su scala più grande”. In natura esistono infatti organismi come alcune vespe parassitoidi o il botfly (mosca delle mosche) i cui larve si sviluppano all’interno di un ospite vivo per poi uscirne distruggendolo – un evidente parallelo con il famigerato chestburster di Alien (la larva aliena che esce esplosivamente dal petto di Kane). Anche l’idea dell’uovo da cui emerge una forma larvale (facehugger) che infetta l’ospite richiama il ciclo di vita di certi parassiti. Insomma, lo Xenomorfo fu costruito attingendo a fenomeni reali – “gli orrori in scala ridotta che abbiamo sulla Terra, portati su scala più ampia” per citare Cushing. Da un punto di vista biologico, dunque, la catena uovo –> larva facehugger –> embrione nel corpo dell’ospite –> organismo giovane chestburster –> adulto ha una sua logica evolutiva, per quanto spaventosa, se pensiamo a un parassita perfetto che utilizza altre specie per riprodursi.
Dove il realismo vacilla è nei tempi e modalità di questo ciclo vitale. Nel film, trascorrono poche ore tra l’attaccamento del facehugger sul viso di Kane e la nascita del chestburster, e poi forse meno di un giorno perché il piccolo mostro diventi un adulto alto oltre due metri con piena forza e capacità predatoria. Questa crescita fulminea è difficilmente spiegabile scientificamente. Ogni creatura per crescere deve consumare materiale: da dove prende lo Xenomorfo l’enorme massa necessaria a passare da serpentino neonato di qualche chilogrammo a gigante biomeccanico di 100+ kg? Nel film non lo vediamo mangiare. Si potrebbe ipotizzare che abbia metabolizzato una gran parte del corpo dell’ospite (Kane) durante la gestazione interna – di fatto assorbendone nutrienti – ma non viene spiegato. È una classica libertà narrativa: l’alieno “magicamente” raggiunge dimensioni adulte fuori campo. Nella realtà, nessun organismo può crescere così tanto e in così poco tempo senza un apporto energetico colossale. Per fare un esempio, le larve di insetto che raddoppiano la propria massa in poche ore devono alimentarsi in continuazione di nutrienti ad alto contenuto energetico (zuccheri, proteine); uno Xenomorfo per crescere decine di chili in mezza giornata avrebbe bisogno di divorare probabilmente un’intera mucca! Dunque questo aspetto è poco plausibile scientificamente. Si potrebbe immaginare – ragionando fantasiosamente – che la biologia aliena sia estremamente efficiente nel convertire materia in tessuti, e magari che il chestburster contenga già cellule ad altissima densità pronte a espandersi (una sorta di “polline” che assorbe rapidamente gas e elementi dall’ambiente). Ma siamo nel campo delle congetture ad hoc.
Un’altra caratteristica impressionante è la forza e resistenza dello Xenomorfo. Nel primo film, l’alieno (in forma adulta) riesce a sollevare e trascinare facilmente corpi umani, sfonda paratie d’aerazione, e si muove con agilità sorprendente. In Aliens vediamo addirittura regine aliene di dimensioni molto maggiori, e guerrieri Xenomorfi che sfidano la potenza di fuoco dei marine. La loro pelle nera lucida è spesso descritta come un esoscheletro chitinoso, simile al carapace di un insetto, ma rinforzato. In effetti, la composizione del corpo alieno è volutamente ambigua nel film – c’è un mix di biomeccanico e organico (grazie allo stile artistico di H.R. Giger). Se fosse una sorta di “insetto” gigante, ci sono limiti fisici alla sua taglia (sulla Terra, la pressione atmosferica e la gravità limitano la dimensione degli artropodi, che usano muscoli interni su esoscheletro – oltre un certo volume, quell’anatomia non regge più il peso). Ma essendo un alieno, potrebbe avere una muscolatura interna oltre all’esoscheletro esterno (un po’ come i crostacei, robusti ma anche muscolosi). Nei film, gli Xenomorfi sembrano dotati di forza superiore a quella umana – il che è credibile se li consideriamo organismi evoluti come super-predatori: molti animali sulla Terra hanno forza proporzionalmente maggiore dell’uomo (es. un gorilla è diverse volte più forte, certi insetti possono sollevare decine di volte il proprio peso). Se lo Xenomorfo ha un tessuto muscolare denso e efficiente, e leve anatomiche favorevoli, potrebbe plausibilmente avere la meglio su un uomo in combattimento corpo a corpo. Inoltre, la sua capacità di sopravvivenza è notevole: in Alien resiste un po’ nel vuoto spaziale (viene espulso dalla camera di decompressione ma non muore istantaneamente, sebbene venga poi arso dai motori). Questo suggerisce una fisiologia estremamente robusta e adattabile, forse con tessuti capaci di funzionare anche in condizioni di ossigeno zero (magari impiegando una specie di metabolismo anaerobico temporaneo, come fanno alcuni vermi o batteri?).
La caratteristica più famosa è però il sangue acido dello Xenomorfo. Nel film, quando il facehugger viene inciso o quando lo Xenomorfo adulto viene ferito, esce un fluido giallo-verde che reagisce violentemente con i materiali, bucando metallo e pavimenti in pochi secondi. Viene definito “acido molecolare”. Questa trovata ha due funzioni: rende l’alieno ancora più pericoloso (anche morto o ferito è un rischio, perché il suo sangue può uccidere) e aggiunge tensione narrativa (i personaggi hanno “paura del sangue” tanto quanto dell’alieno stesso). Esiste qualcosa di simile in natura? Nessun organismo terrestre noto ha sangue acido altamente corrosivo – sarebbe deleterio per l’organismo stesso. Tuttavia, alcuni animali usano liquidi chimicamente aggressivi come arma difensiva: ad esempio il coleottero bombardiere spara una miscela bollente di perossido di idrogeno e chinoni, mentre alcune formiche spruzzano acido formico. Ma si tratta di sostanze blande rispetto a quelle immaginate in Alien. Il sangue dello Xenomorfo, per come è rappresentato, sembra essere un superacido, capace di reagire con quasi ogni elemento. In laboratorio l’uomo ha sintetizzato acidi fortissimi, come l’acido fluoroantimonico (HSbF6), che è milioni di volte più forte dell’acido solforico e può corrodere il vetro e quasi qualunque contenitore – tanto che va tenuto in speciali materiali come il Teflon. Esistono anche i cosiddetti superacidi carboranici, con strutture molecolari complesse a base di boro e idrogeno, anch’essi estremamente potenti. Quindi, in linea di principio, un acido abbastanza forte da sciogliere metalli in pochi istanti esiste (almeno in forma sintetica). Lo Xenomorfo potrebbe avere evoluto un acido simile come sangue? Se sì, come fa a non corrodere se stesso? Su questo punto i fan e persino i materiali ufficiali dell’universo Alien hanno speculato: un’ipotesi è che gli Xenomorfi abbiano tessuti interni ed un esoscheletro composti da sostanze resistenti all’acido, magari una sorta di polimero organico simile al Teflon o ceramiche speciali. Si teorizza che la loro struttura chitinosa sia impregnata di fluoro-composti inerti, il che spiegherebbe perché l’acido non li danneggia nemmeno post-mortem. In pratica, il loro sangue sarebbe fortemente acido solo a contatto con altri materiali, mentre le pareti interne dei vasi sanguigni e la corazza esterna sarebbero inerte a quell’acido. Questo non ha paralleli diretti in biologia terrestre (nessun animale ha teflon naturale nelle vene!), ma non è del tutto implausibile dal punto di vista chimico: il Teflon (PTFE) è un materiale che resiste ad acidi come l’acido fluoridrico, ed è fatto di carbonio e fluoro – elementi che un organismo alieno potrebbe incorporare se evolutosi in un ambiente ricco di fluoruri. Inoltre, l’acido alieno sembra ossidarsi all’aria e neutralizzarsi abbastanza rapidamente, il che potrebbe impedire che ogni goccia di sangue buchi indefinitamente tutto: in Alien vediamo che il sangue cade attraverso due ponti della Nostromo ma poi la reazione si ferma, segno che ha esaurito la sua efficacia una volta consumati i reagenti. Questo è coerente con molti acidi forti che, una volta reagito con l’ambiente, si diluiscono e perdono forza.
Quanto forte sarebbe questo acido? Nel film lo definiscono “molecular acid” senza dettagli. In base agli effetti, possiamo immaginare qualcosa di analogo a un mix di acido solforico e acido fluoridrico ultra-concentrati, o un superacido tipo quelli citati (fluorosulfonico + pentafluoruro di antimonio). Un acido così potrebbe facilmente intaccare silicati (vetro, roccia), metalli (alluminio, acciaio) e carbone organico (tessuti umani). Ad esempio, l’acido fluoridrico attacca il vetro e dissolve il silicio formando gas; l’acido solforico concentrato carbonizza le sostanze organiche; combinati possono produrre effetti devastanti. Non a caso, su Alien vediamo fumo bianco e fori allargarsi – tipico di un acido che reagisce vigorosamente. In natura l’acido più forte prodotto da esseri viventi è forse l’acido nello stomaco umano (acido cloridrico a pH ~1-2) o in alcuni organismi estremofili che vivono in condizioni acide (ci sono batteri che producono acido solforico, ad esempio, con pH negativi locali). Ma si parla di pH ~ -3 al massimo in ambienti naturali estremi. Il sangue alieno è chiaramente oltre questi livelli, sui livelli di laboratorio. Dunque qui Alien prende una licenza enorme, ma affascinante: uno Xenomorfo è praticamente un organismo con chimica interna “esotica”, dove il sangue è un’arma chimica micidiale. Da notare che ciò lo rende difficilmente fruibile come forma di vita evolutasi naturalmente: è più facile immaginare che siano stati ingegnerizzati (come in effetti suggeriscono i prequel Prometheus e Covenant, dove si allude a bioingegneria aliena). In ogni caso, dal punto di vista del pubblico, il sangue acido funziona alla grande per creare situazioni di tensione uniche – come quando in Aliens uno dei Marine grida “Attento! Ha un sangue del cavolo di acido!” mettendo in guardia i compagni dal rischio di essere colpiti dagli schizzi corrosivi.
Riassumendo, la biologia dello Xenomorfo rappresentata in Alien/Aliens mescola trovate derivanti da organismi reali (parassitismo, vita ciclica con metamorfosi) a caratteristiche estremizzate per esigenze narrative (crescita istantanea, sangue superacido). La plausibilità scientifica è parziale: il ciclo vitale è credibile ispirandosi alla natura, mentre la chimica e i tempi di sviluppo dell’alieno trascendono quello che conosciamo come possibile. Eppure, questo mix funziona nel contesto del film perché lo Xenomorfo incarna perfettamente l’“altro” biologico, qualcosa di totalmente alieno e terrificante, e allo stesso tempo viene presentato con una coerenza interna (rispetta le sue “regole” fisiche, per quanto fantasiose). Anche gli scienziati reali, pur riconoscendo l’impossibilità di certi dettagli, hanno elogiato Alien per aver creato un mostro che sembra evolutivamente e ecologicamente possibile – “uno sgradevole parassita ingigantito” – molto più credibile di tanti alieni antropomorfi del cinema.
L’ambiente alieno del pianeta LV-426
In Alien e Aliens gran parte della vicenda si svolge su LV-426, il pianetino dove viene trovato il relitto alieno e dove sorge la colonia Hadley’s Hope. LV-426 è rappresentato come un luogo estremo: cieli perennemente oscurati da nubi turbolente, violente raffiche di vento, terreno roccioso e vulcanico, e un’atmosfera irrespirabile per l’uomo (nel primo film, gli astronauti devono indossare tute e caschi all’esterno). Quanto sappiamo di questo pianeta immaginario e le sue caratteristiche potrebbero esistere realmente?
LV-426 è descritto come uno dei tre satelliti in orbita attorno a Calpamos, un gigante gassoso (nel film lo si vede nel cielo come un’enorme pianeta con anelli, simile a Saturno). Già da questa informazione possiamo immaginare che LV-426 sia soggetto a forti influenze mareali e a radiazioni provenienti dal gigante gassoso. Secondo fonti dell’universo espanso di Alien, LV-426 (chiamato anche “Acheron”) ha un diametro di circa 1200 km – quindi molto più piccolo della Luna terrestre – ma una gravità sorprendentemente alta, ~0,86 g. Ciò è un po’ inconsueto: per avere quasi la gravità terrestre con un diametro così ridotto, LV-426 dovrebbe essere estremamente denso, forse composto di elementi pesanti o con un nucleo metallico anormalmente compatto. Alcuni fan hanno suggerito che potrebbe essere il nucleo residuo di un ex gigante gassoso (una sorta di “nano bruno” spogliato degli strati esterni), oppure che i dati di diametro/gravità siano semplicemente un errore tecnico. Ad ogni modo, nel film vediamo che gli astronauti si muovono normalmente e non sembrano saltellare come farebbero su una luna a bassa gravità, quindi accettiamo che LV-426 abbia quasi gravità terrestre.
L’atmosfera di LV-426, come riportata dalla Nostromo in Alien, è “primordiale e inerte”: principalmente azoto, con alte concentrazioni di anidride carbonica (CO₂) in forma di cristalli, metano e tracce di altri elementi. Praticamente niente ossigeno libero e temperatura molto bassa, al punto che CO₂ e metano potrebbero condensare. Viene descritta come densa e polverosa, con tempeste frequenti che oscurano la luce. Questo ricorda in parte ambienti del nostro Sistema Solare come Titano (satellite di Saturno con atmosfera spessa di azoto e metano, cielo perennemente coperto) oppure Venere (atmosfera densa di CO₂ e nubi spesse, anche se Venere è rovente, non fredda). Nel caso di LV-426, sembra esserci attività geologica (vulcani) che immette gas nell’atmosfera. Un’atmosfera ricca di CO₂ e metano sarebbe tossica e priva di ossigeno, dunque incompatibile con la vita terrestre complessa – coerente con la battuta in Aliens in cui un dirigente definisce LV-426 “un sasso… nessuna forma di vita indigena”. Possiamo dedurre che LV-426 sia un mondo sterile (se non fosse per la minaccia Xenomorfa introdotta accidentalmente).
Nel lasso di tempo tra il primo e il secondo film (57 anni diegetici, dal 2122 al 2179), l’uomo ha cercato di terraformare LV-426. In Aliens scopriamo infatti l’esistenza della colonia Hadley’s Hope, fondata decenni prima come avamposto di terraformazione e scavo. Si parla di uno “shake and bake colony”, ovvero un piccolo insediamento con un grande impianto di elaborazione atmosferica (“atmosphere processor”) che gradualmente trasforma l’aria rendendola respirabile. Secondo la timeline ufficiale, Hadley’s Hope venne stabilita attorno al 2157, il che significa che al tempo degli eventi di Aliens (2179) erano circa 22 anni che la colonia operava su LV-426. In due decenni, il processo non era ancora completato al 100%, ma abbastanza avanzato da permettere ai coloni di girare all’interno della base senza tute. Fuori, l’aria probabilmente rimaneva irrespirabile (infatti nelle scene esterne di Aliens vediamo i Marine usare ancora i caschi con filtro). Terraformare un pianeta (o luna) è un’impresa mastodontica anche solo teoricamente: vorrebbe dire pompare nell’atmosfera enormi quantità di ossigeno, ridurre CO₂ e metano, mitigare il clima estremo. In Aliens, il reattore nucleare funge anche da terraformante: esso “riscalda” l’atmosfera e favorisce reazioni chimiche. Nella realtà, simili concetti di terraformazione esistono (per Marte o Venere), ma i tempi sarebbero su scala secolare o millenaria, non ventennale. Possiamo però concedere che tecnologie future avanzate (forse impiegando catalizzatori nanotech o piante geneticamente modificate) abbiano accelerato il processo su LV-426. La presenza di acqua non è menzionata nei film – non vediamo oceani o fiumi su LV-426. Forse c’era del ghiaccio sotterraneo usato per ottenere ossigeno tramite elettrolisi. La colonia è mostrata in Aliens come un insieme di moduli pressurizzati, con un enorme impianto atmosferico (che poi esploderà nel climax, liberando probabilmente tutta l’energia accumulata).
Altre caratteristiche fisiche note di LV-426: un giorno molto breve, circa 2 ore (rotazione rapida), anche se col cielo costantemente nuvoloso il concetto di giorno/notte è relativo; e una superficie in buona parte vulcanica e rocciosa, con poche caratteristiche degne di nota a parte il luogo del relitto alieno (il quale giaceva in una zona montuosa chiamata Ilium Range). Quando la Nostromo atterra (in Alien), subisce danni a causa del terreno accidentato – indice di attività tettonica. Questi dettagli suggeriscono un mondo geologicamente attivo, forse mantenuto tale dalle forze mareali dovute al gigante gassoso (come Io, satellite vulcanico di Giove, che ha costante attività a causa delle interazioni gravitazionali).
In termini di realismo, LV-426 è un ritratto abbastanza classico di un mondo alieno ostile: aria irrespirabile, tempeste perenni, freddo intenso. Non c’è nulla di assurdo in questo – anzi molti esopianeti ed esosatelliti scoperti potrebbero avere condizioni simili. Un piccolo satellite di un gigante gassoso con atmosfera spessa e clima tormentato è del tutto plausibile. L’unica stranezza fisica, come detto, è la combinazione di dimensioni ridotte e gravità elevata, ma su questo possiamo soprassedere come licenza fantascientifica. Nel film, questi aspetti ambientali sono rappresentati con cura scenografica (le tute incrostate di ghiaccio, il vento che ulula, la visibilità minima con lampi elettrici nelle nubi). Tutto ciò contribuisce all’atmosfera cupa e claustrofobica: gli umani su LV-426 sono davvero in un ambiente alieno e ostile, prima ancora di incontrare gli Xenomorfi. È interessante notare che i coloni di Hadley’s Hope vivevano protetti in un habitat, quindi quando quell’habitat viene compromesso (dall’infestazione aliena e poi dai danni strutturali), il pianeta stesso diventa una condanna a morte (anche senza alieni, stare fuori significherebbe soffocare). Questo è in linea con la realtà: se mai colonizzassimo un pianeta inospitale, saremmo sempre a un passo dal disastro se i sistemi di supporto vitale cedessero.
In conclusione, l’ambiente di LV-426 nei film è coerente con l’idea di un pianeta estremamente inospitale. I film non scendono troppo in dettagli scientifici, ma quel poco che dicono (composizione atmosferica, clima) è ragionevolmente credibile. La terraformazione accelerata è più discutibile in termini di tempi, ma è un concetto accettabile nella fantascienza futuristica. E proprio la presenza del processo di terraformazione in Aliens aggiunge un elemento di realismo sociale: gli umani cercano di rendere abitabile un mondo per sfruttarne le risorse – cosa che, se avremo mai la tecnologia, probabilmente proveremo a fare davvero.
Armi e tecnologie futuristiche: dalla fantascienza alla realtà
Oltre alle astronavi e agli alieni, i film Alien e Aliens mostrano un ventaglio di tecnologie futuribili al servizio (o minaccia) dell’uomo del XXII secolo. Quanto sono realistiche o profetiche queste invenzioni? Passiamone in rassegna alcune:
- Armi da fuoco avanzate (M41A “Pulse Rifle” e Smartgun): In Aliens vediamo i Colonial Marines equipaggiati con fucili d’assalto futuristici chiamati Pulse Rifle M41A, dotati di contatore digitale dei colpi e lanciagranate integrato, oltre a mitragliatrici pesanti intelligenti (Smartgun) su binari stabilizzati. Nonostante i nomi altisonanti, queste armi sparano proiettili convenzionali (non laser). Il Pulse Rifle usa proiettili da 10×24 mm a punta esplosiva, “caseless” (senza bossolo) – un concetto che era esplorato già negli anni ’80 in armi sperimentali reali, come l’H&K G11. Le armi a munizionamento senza bossolo eliminano il bisogno di estrarre il bossolo spento, permettendo cadenza di fuoco elevata, ma soffrono di problemi di surriscaldamento e stabilità della propellente. Nel film, però, tutto funziona perfettamente: i Marine possono sparare raffiche lunghe (magazine da 99 colpi) e l’unico inconveniente è… finire le munizioni! Dal punto di vista della plausibilità, un fucile d’assalto del 2100 che ancora spara proiettili analoghi a quelli odierni è credibile – anzi Aliens fu lodato per aver evitato i “raggi laser” optando per armi da fuoco realistiche, solo aggiornate. Il lanciagranate sottocanna M40 lanciato da Ripley è simile ai lanciagranate da 40mm in uso oggi (M203), ma spara granate “intelligenti” a impatto ritardato (nell’extended cut, i Marine usano anche torrette sentinella automatiche con mitragliatrici robotiche – qualcosa che oggi esiste in forme rudimentali per difesa perimetrale). La Smartgun, impugnata da Vasquez e Drake, è ispirata a una MG42 tedesca modificata, montata su un braccio articolato con mirino sensorizzato: un’arma guidata da un targeting smart che aiuta a mirare. Nel 1986 era fantascienza, ma oggi iniziamo a vedere esaudienti progetti di armi con puntamento assistito e esoscheletri per assorbire rinculo (alcuni eserciti studiano supporti per mitragliatrici pesanti portatili). Nulla di quello visto in Aliens in termini di armi convenzionali viola leggi fisiche – sono evoluzioni tecnologiche realistiche. Piuttosto, c’è da chiedersi dell’efficacia: i fucili dei Marine si rivelano inadeguati contro orde di alieni, in parte perché non possono usare le armi pesantemente all’interno della base (il reattore nucleare rischia di esplodere se colpito da munizioni esplosive). Questo elemento – dover combattere in un ambiente chiuso con armi a rischio – evidenzia un pensiero strategico interessante e credibile. Anche oggi, l’uso di armi ad alto calibro in spazi confinati (come in un aereo o una stazione spaziale) sarebbe problematico.
- Rilevatore di movimento: In Aliens i personaggi usano un dispositivo palmare che rileva il movimento a distanza, segnalando con un beep direzione e distanza di oggetti in movimento. Questa tecnologia è assolutamente plausibile: possiamo immaginare sia un radar Doppler portatile o un sonar ultrasonico. In effetti, strumenti simili esistono oggi per usi militari e di sicurezza (radar a penetrazione che possono individuare persone dietro muri tramite il loro movimento). Il limite reale è la risoluzione e le false segnalazioni: un radar portatile può rilevare movimento ma potrebbe confondere più bersagli ravvicinati o subire interferenze. Nel film vediamo proprio una limitazione: il tracker indica la distanza ma non l’altitudine, cosicché i Marine non capiscono che gli alieni stanno nei condotti sopra di loro. Questo dettaglio di “bug” tecnologico dà realismo: nessun sensore è perfetto. Oggi potremmo costruire un motion tracker simile con componenti radar a microonde o lidar, quindi questa gadget è uno dei più credibili.
- Androidi sintetici: In Alien e Aliens compaiono androidi indistinguibili dagli umani: Ash nel primo film (anche se si rivela malfunzionante e letale) e Bishop nel secondo, un modello avanzato capace di provare una sorta di etica robotica (“Non posso fare del male ad un essere umano”, dice). Questi robot organici con sangue bianco sono frutto di biotecnologia e robotica avanzatissima. Nel 1979 l’idea di un androide così perfetto era fantascienza pura; oggi, non siamo ancora in grado di costruire robot umanoidi altrettanto convincenti, ma siamo leggermente più vicini: esistono androidi umanoidi (Honda Asimo, Boston Dynamics Atlas) con movimenti fluidi, ed esistono intelligenze artificiali avanzate – ma nessuna macchina ha ancora superato il test di sembrare umana in tutto e per tutto. La rappresentazione di Ash e Bishop rimane di fantasia per il 2120, ma non è impossibile sul lungo termine: se i progressi in AI e robotica continuano, e magari si combina con ingegneria biorobotica (coltivare tessuti umani su impalcature meccaniche), un androide “organico” potrebbe essere concepibile. Un aspetto da sottolineare è che Alien fu uno dei primi film a proporre l’androide come figura ambigua (Ash con secondi fini, Bishop invece benevolo) – e la scienza ancora dibatte su come programmare l’etica nelle AI. In termini di costruzione, gli androidi del film hanno fluidi interni bianchi e componenti sintetici che reagiscono in modo strano (Ash va in corto e “suda” latte e palline bianche): dettagli che non corrispondono a nessuna tecnologia reale, ma danno l’idea di “alieno anche nella macchina”. Direi che su questo aspetto la plausibilità è sacrificata per l’effetto narrativo.
- Power Loader (eso-scheletro da carico): Chi può dimenticare Ripley che indossa l’esoscheletro giallo P-5000 Power Loader per combattere la Regina aliena? Si tratta di un mech bipede antropomorfo utilizzato in origine per spostare carichi pesanti (armi, casse) grazie a bracci idraulici potenti. Questa tecnologia è sorprendentemente profetica: oggi, nei primi decenni del XXI secolo, varie aziende stanno sviluppando esoscheletri motorizzati per aiutare operai a sollevare pesi notevoli senza sforzo. Ad esempio, la società Sarcos ha realizzato il Guardian XO, un esoscheletro attuato elettricamente che permette a un operatore di alzare 90 kg sentendo come fossero 4,5 kg, con autonomia di alcune ore. Il Power Loader di Aliens è sostanzialmente questo concetto portato all’estremo: nel film vediamo che Ripley dentro l’armatura muove le braccia e la macchina, tramite sensori e servocomandi, amplifica i suoi movimenti con forza sovrumana (solleva un alien queen che pesa diverse tonnellate, almeno temporaneamente). Il power loader ha alimentazione probabilmente a celle a combustibile a idrogeno (secondo i dati di scena) – anch’esso plausibile in un futuro: un esoscheletro industriale potrebbe usare batterie o fuel cell per alimentare i motori idraulici. Aliens mostra anche limiti del mezzo: è lento, poco adatto al combattimento se non in situazioni particolari (Ripley lo usa in modo improvvisato come “armatura” contro il mostro). Oggi abbiamo esoscheletri militari e civili, ma generalmente sono parziali (che supportano gambe o schiena) più che grandi mecha bipedi. Tuttavia, progetti come i Loader della Caterpillar (che nel film è pure citata come produttrice) sono allo studio. Insomma, il Power Loader è uno degli elementi più azzeccati in termini di predire una tecnologia reale. Può sembrare fantascienza eroica, ma dietro c’è buon senso ingegneristico: un esoscheletro aumenta la forza umana usando attuatori – nulla di magico. L’unica differenza: nel film è abbastanza agile da fare una lotta, nella realtà corrente sono ancora macchine ingombranti e un po’ rigide. Ma entro il 2100? Probabile che avremo macchine da carico di quel tipo.
- Tecnologia nucleare e veicoli: Aliens menziona un reattore termonucleare che alimenta la colonia e funge da atmosfera processor. Viene detto che se colpito detonerebbe con forza di 40 megaton – come una bomba all’idrogeno. Questo appare un po’ esagerato: i reattori nucleari (a fissione o fusione) non esplodono a meno di condizioni molto particolari, e comunque difficilmente come un’arma termonucleare militare (che è progettata per massimizzare la resa esplosiva). Un reattore a fusione fuori controllo probabilmente si spegnerebbe da solo (perderebbe contenimento e la reazione si fermerebbe, perché la fusione richiede condizioni precise, non è una bomba tipo fissione a catena). Ma per esigenze di trama, l’impianto su LV-426 esplode devastando tutta la colonia, in un fungo atomico visibile dallo spazio. Licenza narrativa, anche qui: più un’esplosione chimica delle infrastrutture e del combustibile che una pura esplosione nucleare. Comunque, ciò illustra i rischi legati all’energia nucleare – tema caro alla fantascienza anni ’80. Quanto ai veicoli, i film mostrano navette dropship orbitale (in Aliens), un veicolo corazzato APC M577 per trasporto truppe, e naturalmente la stessa Nostromo era una nave da trasporto minerario. Il dropship ricorda un incrocio tra un elicottero d’assalto e uno shuttle: decolla dalla Sulaco in orbita e scende su LV-426 in pochi minuti con i Marine a bordo. Ha motori orientabili (VTOL) e può volare sia in atmosfera che nello spazio. Una navetta del genere è concettualmente simile ai progetti di spaceplane riutilizzabili: se dotata di motori a razzo potente e di qualche tipo di propulsione scramjet per l’atmosfera, potrebbe funzionare. Certo, oggi un veicolo che dalla Terra vada in orbita e ritorno con facilità non è ancora operativo, ma la SpaceX e altre società stanno avvicinandosi (il Starship, se funzionante, potrebbe fare qualcosa di analogo su scala più grande). Il design del dropship di Aliens è ispirato a velivoli militari (harrier, F-4) ed è abbastanza realistico nelle proporzioni. L’APC invece è un blindato ruotato a profilo bassissimo; nel film ne vediamo gli interni high-tech, con monitors e sensori. È fondamentalmente un mezzo corazzato futuristico che potrebbe essere costruito anche oggi – infatti per le riprese utilizzarono un trattore aeroportuale modificato. Nulla di fantascientifico, se non i materiali leggeri e il motore silenzioso (forse elettrico). Anche qui, Aliens ha anticipato un trend: i moderni veicoli militari stanno incorporando sempre più elettronica, visori a 360°, droni di supporto ecc.
In generale, una cosa che colpisce è che Alien e Aliens – pur ambientati in un futuro lontano – mostrano tecnologie tangibili, industriali, sporche. La Nostromo è fondamentalmente un rimorchiatore spaziale, molto “analogico” con interfacce testuali, catene di metallo, tubi ovunque. Questa estetica “retro-futuristica” è diventata nota come used future: un futuro usurato e funzionale, lontano dal luccichio asettico di altre fantascienze. Ciò paradossalmente rende alcuni aspetti più credibili: vediamo personaggi che riparano condutture, sbuffi di vapore nei corridoi, gru e mezzi operativi – tutti dettagli che ci aspetteremmo in una vera nave da lavoro. Anche la Weyland-Yutani, la corporazione fittizia, incarna un elemento realistico: l’idea che lo spazio futuro sarà dominato da megacorporazioni interessate al profitto e pronte a rischiare vite umane per ottenere nuove armi biologiche (come l’alieno). Questo tema etico è fantascienza sociologica, ma non priva di parallelismi con la realtà (basti pensare alla corsa storica delle compagnie nelle colonie o alle aziende odierne che finanziano privatamente viaggi spaziali).
Per tirare le somme sulle tecnologie: Aliens in particolare presenta armi e strumenti che non infrangono le leggi della fisica e anzi spesso anticipano sviluppi reali (esoscheletri, droni, armi computerizzate). Alien (1979) fu più vago sulla tecnologia, concentrandosi sul terrore; Aliens (1986) come film d’azione mise in vetrina gadget che poi abbiamo cercato di realizzare davvero. Certo, alcune cose restano altamente futuristiche (gli androidi organici, i viaggi FTL), ma altri elementi sono stranamente profetici. Chi oggi riguardasse Aliens potrebbe notare i tablet portatili usati dai coloni (Newt e la famiglia hanno qualcosa simile a un iPad in una scena tagliata), oppure i sistemi automatici di torrette – oggetti comuni nella nostra attuale vita militare/civile, ma pura fantasia all’epoca.
Conclusioni: quando la fantascienza incontra la realtà
A oltre quarant’anni dall’uscita di Alien e decenni da Aliens, è affascinante constatare come molte idee scientifiche contenute in questi film reggano ancora la nostra attenzione. Ridley Scott e James Cameron, pur non essendo scienziati, hanno creato mondi coerenti dove la fantascienza serve la storia in modo verosimile. Certo, molti elementi non hanno riscontro reale (viaggi superluminali, gravità artificiale “magica”, sangue acido ultra-corrosivo), ma sono usati con intelligenza: rimangono sullo sfondo, come assunti tecnologici necessari per permettere alla trama di esistere. In primo piano, invece, troviamo concetti più solidi e universali: la dura realtà di un pianeta ostile, l’orrore di un parassita che sfrutta gli umani come incubatrici, la tensione di dover rispettare le leggi fisiche. Questi tocchi di realismo rendono l’esperienza filmica credibile, cosicché lo spettatore accetta senza problemi anche le componenti inventate.
Inoltre, è notevole come i film Alien abbiano anticipato questioni che la scienza e la tecnologia reali stanno affrontando: ibernazione per viaggi spaziali, esoscheletri potenziati, terraformazione di altri mondi e intelligenza artificiale etica. In particolare, la ricerca contemporanea conferma che l’ibernazione umana non è pura fantasia – potrebbe un giorno diventare parte del bagaglio per l’esplorazione interplanetaria. Allo stesso modo, i progressi in robotica fanno intravedere un futuro con macchine indossabili in stile power loader, e la colonizzazione di Marte ci obbligherà a pensare a come generare gravità o trasformare ambienti ostili (terraformare). Certo, Alien resta innanzitutto un’opera di fiction: quando la scienza ostacolava la narrazione, la sceneggiatura privilegiava la tensione e l’immaginario (ad esempio, la fisica direbbe che un piccolo alieno non può crescere senza alimentarsi; eppure nel film lo fa, per sorprendere il pubblico e incutere timore). Questo è comprensibile – dopotutto, “quasi ogni film di fantascienza richiede una dose di sospensione dell’incredulità” come ha detto un ricercatore. La chiave è come la si dosa: Alien e Aliens lo fanno in modo intelligente, mantenendo gran parte dello scenario ancorato a basi realistiche e limitando le “impossibilità” a pochi aspetti ben circoscritti.
In definitiva, analizzare la fisica e la scienza in Alien e Aliens ci rivela perché questi film funzionano così bene: mescolano sapientemente fantasia e rigore, stimolando sia la paura che la curiosità intellettuale. Ci fanno porre domande (“Potremmo davvero ibernarci per viaggiare tra le stelle?” “Un organismo come lo Xenomorfo potrebbe evolversi da qualche parte nell’universo?” “Che tipo di società costruirebbe un esoscheletro da lavoro o colonizzerebbe lune lontane?”) e allo stesso tempo ci immergono in una storia avvincente. Forse non scopriremo presto Xenomorfi reali in qualche angolo della galassia ma le sfide scientifiche intraviste in Alien (viaggiare nello spazio profondo, sopravvivere su mondi alieni, confrontarci con forme di vita sconosciute) restano assolutamente attuali. E chissà, quando l’uomo metterà piede su un esopianeta per la prima volta, quei pionieri potrebbero benissimo ricordare con un brivido le parole di Ellen Ripley: “questa cosa… non sappiamo con cosa abbiamo a che fare…”, sperando di non trovarsi davvero in un incubo alla Alien.
Fonti: Le affermazioni scientifiche sono supportate da riferimenti a studi e documenti, ad esempio sui progressi nella criogenesi e torpore indotto, sulle difficoltà nel generare gravità artificiale, sulla chimica dei superacidi e sulle caratteristiche di LV-426 secondo il materiale ufficiale della saga. Questi confronti mostrano come la finzione confrontata alla realtà sia a volte vicina, a volte distante, ma sempre stimolante per alimentare sia la passione per la scienza che quella per il cinema.
Stefano Camilloni