Da quando alzammo per la prima volta gli occhi al cielo, una domanda silenziosa ha accompagnato l’umanità nel suo cammino: siamo soli nell’universo?. È un interrogativo che si annida nei miti delle origini, nei racconti delle stelle e nei laboratori più moderni della scienza. Oggi, con strumenti sempre più raffinati e cuori sempre più affamati di meraviglia, siamo entrati in una nuova epoca: quella della caccia cosmica alla vita.
Una delle scoperte più emozionanti degli ultimi anni riguarda K2-18b, un esopianeta distante 124 anni luce da noi, immerso nella quiete dorata della costellazione del Leone. Questo mondo, grande 2,6 volte la Terra e con una massa quasi nove volte superiore, ha fatto parlare di sé per un segnale particolare: la possibile presenza di dimetilsolfuro (DMS) nella sua atmosfera. Una molecola che, sulla Terra, è prodotta quasi esclusivamente dai batteri marini.
Se confermata, questa rilevazione potrebbe essere una delle più suggestive biosignature mai registrate. Perché il DMS, in casa nostra, è il sussurro dell’oceano, il respiro invisibile del plancton. E allora, ci si chiede: e se, laggiù, oltre le distese del tempo e dello spazio, qualcosa stesse davvero vivendo, respirando, mutando?
Ma la scienza, come la poesia, conosce bene il valore del dubbio. E sa che ogni bagliore nel buio può essere tanto una lanterna della vita, quanto il riflesso di un inganno chimico. Per questo, i ricercatori invitano alla cautela. K2-18b, affascinante e misterioso, potrebbe essere un mondo d’acqua con una spessa atmosfera d’idrogeno, simile a un giovane Nettuno. Ma potrebbe anche celare un oceano di magma o un’anima di gas e ghiaccio incapace di accogliere la complessità del vivente.
La ricerca di segni di vita — le biosignature — è simile a decifrare lettere inviate da mondi lontani, scritte in lingue che non conosciamo ancora. Gli astronomi usano gli spettri di luce raccolti dai telescopi per dedurre la composizione delle atmosfere. È un lavoro di estrema precisione e intuizione, dove ogni riga, ogni assorbimento, ogni curva può raccontare una storia diversa — ma anche sbagliare racconto.
La storia ci insegna prudenza. Negli anni ’70, un esperimento sulla sonda Viking fece pensare che su Marte potessero esserci microrganismi. Anni dopo, quella speranza fu smontata. Nel 1996, un meteorite marziano sembrò contenere fossili batterici, ma la scienza non fu d’accordo. Anche la recente fosfina su Venere, un gas legato alla vita sulla Terra, ha acceso entusiasmi subito spenti da revisioni critiche.
Eppure, non è il fallimento che muove la ricerca, ma il desiderio. Lo ricordava Carl Sagan, voce lucida e incantata dell’universo, quando diceva: “Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie.”
Il DMS stesso non è una firma sicura. È stato rinvenuto anche su una cometa e persino nel mezzo interstellare, a testimoniare che la chimica dell’universo può essere molto più creativa della nostra immaginazione terrestre. Potrebbe esserci vita su K2-18b, ma potrebbe anche esserci soltanto la danza silenziosa di atomi e molecole in condizioni estreme che ancora non comprendiamo.
Questa è, in fondo, la lezione più profonda della caccia alla vita extraterrestre: ci insegna la meraviglia paziente, la bellezza del non sapere, la poesia della possibilità. Ogni segnale da un mondo lontano non è solo un dato: è un invito a restare curiosi, vigili, umili.
K2-18b ci guarda da lontano, immerso nella luce fioca della sua stella. Forse è un santuario d’acqua, forse un abisso rovente. Ma intanto, mentre i nostri strumenti catturano spettri e sussurri, noi continuiamo a cercare. Perché cercare la vita oltre la Terra è anche un modo per comprendere meglio la nostra.
Stefano Camilloni