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Cercare la vita oltre la Terra: confrontare per capire, osservare per sognare

Da quando l’uomo ha alzato lo sguardo al cielo, la domanda è rimasta sospesa tra le stelle: siamo davvero soli nell’universo?
La ricerca della vita oltre il nostro pianeta non è solo una sfida scientifica: è un desiderio antico, una tensione esistenziale che attraversa generazioni. Eppure, nel cuore di questa grande avventura cosmica, la risposta si cela tra ombre e riflessi: la vita, anche se presente, potrebbe non farsi vedere così facilmente.

Sappiamo che la vita sulla Terra è comparsa in tempi relativamente brevi (su scala cosmica) e che i suoi ingredienti fondamentali – amminoacidi, zuccheri, molecole complesse – si formano con sorprendente facilità nei laboratori, nelle comete, persino nelle nubi interstellari. Ma trovare la vita, vera, pulsante, altrove… è tutt’altra storia.

Il metodo più diffuso oggi per cercare indizi di vita si basa sull’analisi dell’atmosfera degli esopianeti. Molecole come ossigeno, metano o fosfina potrebbero indicare processi biologici. Ma la natura ama la complessità: gli stessi gas possono essere generati anche da processi puramente geologici o chimici, del tutto privi di vita. Una firma biologica, da sola, è spesso ambigua.

Immaginate allora un gruppo di scienziati alieni che osservano la Terra da una lontanissima galassia. Vederebbero l’azzurro del nostro pianeta, l’alternanza del giorno e della notte, le sfumature dei gas che lo circondano: ossigeno, vapore acqueo, metano. Potrebbero sospettare qualcosa. Ma potrebbero anche sbagliarsi.

E se invece di guardare un solo pianeta, scegliessero di guardare l’intero sistema?
Ecco una possibile svolta. Un recente studio propone un nuovo approccio: non isolare, ma confrontare. Analizzare le atmosfere di più mondi appartenenti allo stesso sistema stellare, per individuare quello che stona nella sinfonia chimica collettiva.

Pensiamo al nostro sistema solare: un gioiello di diversità. Venere e Marte, ad esempio, appaiono oggi come deserti totalmente inospitali. Poi c’è la Terra. Umida, dinamica, ricca di ossigeno e acqua. Un’anomalia vivente.

Questa è l’intuizione alla base della nuova strategia: creare, per ogni sistema, una sorta di “linea di base abiotica”. Una firma chimica tipica dei pianeti morti. E poi cercare chi esce dal coro. Se uno dei mondi mostra quantità insolite di molecole come metano, ossigeno o protossido di azoto – in netto contrasto con i suoi vicini – potremmo trovarci davanti a un candidato davvero speciale.

Gli scienziati hanno testato questa teoria su due sistemi: il nostro e TRAPPIST-1, quel piccolo scrigno cosmico che ospita ben sette pianeti simili alla Terra. Nel nostro sistema, la differenza salta subito all’occhio. La Terra è diversa, sfacciatamente viva. In TRAPPIST-1, invece, la faccenda si fa più sottile. Ma anche lì, il confronto tra i sette mondi potrebbe rivelare chi ha una voce fuori dal coro.

Questa metodologia non offre ancora certezze assolute. Ma è come accendere una lanterna in una foresta buia: potrebbe permettere di orientarsi, di scegliere dove guardare meglio, dove concentrare le risorse, dove sognare più forte.

Perché in fondo, cercare la vita non è solo una questione di spettrometri e telescopi. È un atto poetico. Un gesto di fiducia nel fatto che, in qualche altro angolo del cosmo, un’altra Terra possa esistere. Magari con mari, cieli… e sogni propri.

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