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La caccia al dna marziano: uno strumento potrebbe svelare il segreto della vita su Marte

Immaginate il conto alla rovescia per il primo piede umano su Marte. Ora immaginate che, prima ancora di imprimere quell’orma, scopriamo che il Pianeta Rosso ha già i suoi abitanti—microscopici, fragili, ma reali. Sarebbe una rivoluzione culturale e scientifica paragonabile a Copernico. Ecco perché gli astrobiologi cercano una risposta adesso, prima che l’esplorazione umana rischi di “riscrivere” il paesaggio biologico marziano con la nostra stessa microbiologia.

Il codice segreto di marte: i polielettroliti

Al centro di questa ricerca c’è un’idea semplice e audace: qualunque cosa chiamiamo “vita” ha bisogno di molecole portatrici di informazioni. Sulla Terra quel compito è svolto da DNA e RNA, lunghi polimeri carichi elettricamente—polielettroliti—che custodiscono e copiano istruzioni. Se su Marte la vita avesse imboccato una strada evolutiva diversa, è comunque plausibile che abbia adottato un polielettrolita polimerico con funzioni analoghe: memorizzare, trasmettere, variare. Non a caso, i polielettroliti sono stati inclusi dalla NASA nella “Ladder of Life Detection” come possibili biosignature: indizi chimici che, se trovati, spostano l’ago della bilancia verso l’ipotesi “vita”.

Alf: il cacciatore agnostico di vita

Qui entra in scena l’Agnostic Life Finder (ALF), proposto dal team guidato da Christopher Temby e Jan Spacek. “Agnostico” perché non presume che la vita marziana sia uguale alla nostra: non cerca una sequenza genetica terrestre, ma la logica di fondo—la presenza di polimeri informazionali carichi. Il problema è che un’eventuale biosfera marziana potrebbe essere estremamente diluita: pochi organismi, pochissime molecole, tutte disperse in un mare di sali e polveri.

ALF risponde con un espediente elegante: l’elettrodialisi. Il campione raccolto viene sciolto in acqua e sottoposto a un campo elettrico. Le specie cariche si muovono: i sali—piccolissimi—passano attraverso membrane porose, mentre i polielettroliti, molto più grandi, vengono trattenuti e convogliati in una piccola camera. Prolungando il “richiamo elettrico”, ALF concentra progressivamente quelle macromolecole nello stesso punto, fino a superare la soglia di rilevazione. È come trasformare un sussurro chimico in una frase udibile.

La prova che “respira”: perché l’acqua aiuta (paradossalmente)

C’è un paradosso affascinante. I polielettroliti complessi non amano l’acqua liquida per lunghi periodi: l’idrolisi tende a smontarli. La Ladder of Life Detection considerava questo un limite—le tracce potrebbero degradarsi in fretta—ma per ALF diventa un vantaggio logico. Se, nonostante l’idrolisi, rileviamo polielettroliti integri in un campione acquoso, la spiegazione più semplice è che qualcosa li stia producendo adesso. Non soltanto fossili molecolari di un’epoca remota, ma vita attuale, in attività, in grado di riparare e ricostruire i propri archivi chimici.

Una finestra che si chiude

Ogni lancio, ogni atterraggio, ogni habitat di prova aumenta la probabilità di contaminazione con microbi terrestri resistenti. Per questo la finestra per riconoscere un’eventuale biosfera marziana nativa è temporale oltre che tecnica. Strumenti come ALF offrono un approccio mirato, robusto e relativamente leggero: non impongono un alfabeto specifico (A, C, G, T), ma cercano il principio informazionale incarnato in polimeri carichi e selettivamente concentrabili.

Se li trovassimo

La rilevazione inequivocabile di polielettroliti “marziani”—diversi per struttura, composizione o chiralia dai nostri—imporrebbe nuove domande vertiginose. La vita è convergente verso certe soluzioni chimiche? Esistono più origini della vita nel medesimo sistema solare? E che rapporto avremo con una biosfera che non è la nostra, ma con cui condivideremo un pianeta?

Il bello della scienza è che, a volte, una buona domanda vale quanto una risposta. ALF non promette titoli roboanti: promette metodo. Se i finanziamenti e le priorità lo permetteranno, potremmo presto affiancare a “c’è acqua su Marte” una domanda più coraggiosa: c’è informazione vivente su Marte? E potremmo porla con lo strumento adatto per ascoltare, finalmente, la risposta.

Stefano Camilloni

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